…E noi, atterrati da una Marte Tropicale pieni zeppi di buena onda, ci siamo persi in una città senza bussola. Una città che invecchia, ci ostacola, ci rende più lenti di quello che siamo. Una città che ha sempre fretta, e avrebbe bisogno di più tempo, ma prima ancora avrebbe bisogno di capire cosa farsene. Di ritorno da luoghi lontani, caotici, problematici e accoglienti, ci siamo fermati a casa nostra, giusto in tempo per scoprirla peggiore di quello che era, stanca, ingombrante e affaticata, avvoltolata su quello che manca, oppressa dalla burocrazia, ovvero dalla “pedanteria delle consuetudini, delle forme, delle gerarchie; anche, a proposito di amministrazioni e organizzazioni non pubbliche, che ricalcano gli aspetti e, soprattutto, i difetti della Pubblica Amministrazione”. Una città che è diventata burocratica, anche nelle relazioni. Perdendo così di vista, in troppe occasioni, le persone.
“E tu, pratichi qualche sport?”
Quando a chiederlo è uno sportivo si ha vergogna a rispondere di no.
“Io…beh, cammino molto, vado in bicicletta, anche in palestra ogni tanto…Ah…e fino a qualche anno fa facevo pattinaggio” – ripiego su una mezza verità, una verità del passato, inamovibile.
“Bello! Su strada?” – annuisco, non voglio approfondire troppo, in fondo non erano molto di più delle passeggiate di adesso, solo su ruote invece che su scarpe.
“Si, ma poi ho smesso. Sai, ho avuto un incidente in motorino e mi sono rotta la caviglia….”
Mi rendo conto di quello che sto dicendo mentre lo dico e mi viene da sorridere: ho appena fatto una figuraccia, visto che sono a un torneo di tennis in carrozzina e sto parlando con una persona che un giorno, non era ancora maggiorenne, si trovava per caso in un supermercato e sempre per caso ha incrociato la strada di un uomo con la pistola. La stessa casualità ha voluto che quella pistola sparasse, e colpisse proprio lui, e la pallottola gli si mettesse da qualche parte nella colonna vertebrale. A me, dopo qualche mese di gesso e divano, tre serie di Lost e scaffali di libri, nulla impediva di ricominciare a pattinare, se lo avessi voluto. Incontro lo sguardo del mio interlocutore e scoppiamo a ridere insieme, e allora non sono più imbarazzata, ma ammirata.
Il nostro percorso, il percorso di Storie Paralimpiche, è questo. Un susseguirsi di scintille di senso, di consapevolezze nuove guadagnate nell’incontro con l’altro. Su quelle scintille dobbiamo concentrarci, confidando che quello che ci manca (su tutto 80.000 euro circa per finanziare il progetto, un collegamento più serrato tra tutti coloro che ne fanno parte, un’organizzazione del lavoro più snella ed efficace) arriverà, e che se non dovesse arrivare, poiché il nostro è in primis un progetto sociale, l’obiettivo sarà raggiunto se saremo riusciti a coinvolgere fino in fondo chi ha partecipato al processo. Per questo a ogni battuta d’arresto scegliamo sempre di andare avanti, costretti però a farlo “nonostante”: nonostante il momento, nonostante la crisi, nonostante Mafia Capitale, nonostante gli altri, nonostante noi.
Noi, che dall’altra parte del mondo a volte ci siamo sentiti estranei e fuori luogo, ma mai inopportuni, di troppo. Riuscivamo a infilarci dappertutto, a volte divisi a metà tra quello che osservavamo e quello che ci accadeva dentro. Come una mattina del Niterói Open 2015, un altro torneo di tennis in carrozzina, in cui mi sono ritrovata di punto in bianco assunta come giornalista embedded. Una straniera, sconosciuta, e nonostante ciò mi davano fiducia. Mai come quella volta mi sono sentita “dentro” le mie storie. Dormivo con loro, mangiavo con loro, quasi mi sembrava di essere una di loro. Ma non lo ero, e la mia diversità mi è andata di traverso insieme alla colazione:
“Aline, ma a te cos’è successo? Una pallottola vagante? Un incidente stradale?”
“No no, io sono caduta dalla tettoia”.
“Mentre riparavi il tetto?”
“Macchè. Prendevo il sole sulla tettoia e sono caduta. Sai qual è la cosa che più mi fa ridere? Siamo andate subito in ospedale, mia madre era disperata e io le chiedevo solo: si vede il segno del costume? Mi sono abbronzata?”.
Dalle macerie del nonostante vogliamo adesso iniziare a costruire il nostro cantiere, mattone dopo mattone. Lo abbiamo chiamato CANTIERE DI COMUNICAZIONE SOCIALE, e giorno dopo giorno viene su, e si avvicina verso Rio. É una creatura strana, il cantiere, formato da persone disabili e non, italiane, brasiliane, argentine, tre segmenti e tante anime che si incontreranno dal sette al diciotto settembre 2016 per lavorare come giornalisti in occasione delle Paralimpiadi e realizzare un documentario, raccontando l’evento da un punto di vista più interno e accessibile, quello delle stesse persone con disabilità. É un esperimento di come si può lavorare insieme partendo da capacità e identità profondamente differenti: nel gruppo c’è chi ha la capacità tecnica di produrre e montare video (la Cooperativa Sociale Integrata Matrioska), chi ha nella profonda conoscenza sportiva il suo punto di forza (l’associazione Tenis Adaptado Cañuelas) e chi ha il vantaggio di giocare in casa, ed è pronto a mettere questo vantaggio a disposizione e supporto della squadra (la Sociedade Cultural Projeto Luar) e infine chi ha un’esperienza decennale in Sudamerica e nell’assolvere funzioni di coordinamento (CESC Project).
Chi si ferma è perduto. E noi ripartiamo, con un traguardo segnato a Rio de Janeiro tra undici mesi circa. E con grande attenzione a tutto quello che accade nel frattempo. In attesa di prendere, molto presto, il volo.
https://about.me/brittanyceleste says
I am extremely impressed with your writing skills as well as with the layout on your weblog.
Is this a paid theme or did you customize it yourself?
Either way keep up the excellent quality writing, it’s rare to see a great blog like this one these days. https://about.me/brittanyceleste