Di Diana Pintus
“Ho iniziato due anni e mezzo fa” – esordisce Maria Chirinos. “Solo?!?!?!”, si stupisce Silvia Carranza, presidentessa di CILSA – ONG Por la inclusion. “Sembra di più no? E oggi Maria lavora, studia e gioca. Che sembra niente, ma a Buenos Aires non è per niente una cosa semplice, perché lei vive nella zona sud e il centro di allenamento, Ramsay, è nella zona nord della città”.
Con la storia di Maria si apre lo speciale di Storie Paralimpiche sul basket in carrozzina, uno sport che condivide quasi tutte le regole con il basket per normodotati. Maria era una studentessa di Scienze Politiche alla UBA, la principale università pubblica bonaerense quando è venuta a sapere del programma di borse di studio della ONG CILSA, che si occupa di inclusione delle persone disabili, non solo in campo sportivo. “Mi sono accorta che cercavano qualcuno che lavorasse lì, e così ho colto al volo questa opportunità. Ho iniziato a lavorare nel programma di borse di studio, appunto, poi sono passata a quello di consegna di elementi ortopedici, dove ancora lavoro”.
Da lì al campo da basket il passo è stato breve. Galeotto è stato Daniel Copa, giocatore della nazionale e coordinatore del programma di consegna di elementi ortopedici. Racconta Maria: “un giorno Daniel mi ha invitato ad assistere a un torneo. Io non avevo proprio idea di cosa significasse fare sport, così per curiosità, sono andata a vedere. Mi è piaciuto e…beh, sono passata per la scuola di avviamento, dove si apprendono le basi, e poi con la squadra di terza divisione, dove la competitività è maggiore. Oggi per me è importantissimo giocare. Gioco in Nazionale, nel marzo scorso ho partecipato al Sudamericano in Colombia e ad agosto al Parapanamericano a Toronto”.
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“Per noi è un punto fermo – ci spiega Silvia Carranza, presidente di Cilsa – che tutti i nostri atleti, quando iniziano a giocare a basket, lo facciano dalla scuola di avviamento. In realtà Maria te lo racconta in modo semplice perché è molto umile, ma tiene grandi qualità da un punto di vista sportivo, e così in pochissimo tempo è passata alla squadra di terza divisione di Buenos Aires, nella quale giocano insieme uomini e donne. Poi è stata selezionata dal tecnico della Nazionale femminile e da lì si è lanciata…fino a Toronto!”.
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Un vulcano di 24 anni, Maria. Oltre a lavorare per Cilsa e a giocare, nel club e in nazionale, dopo aver abbandonato Scienze Politiche per scarsa convinzione, adesso studia marketing e comunicazione. Un vulcano timido, la sua paura più grande – ci confessa – è quella di non riuscire ad avere il coraggio di parlare in pubblico. “Si impara? – ci chiede – o è una dote naturale?”. Sappiamo che lo scoprirà da sola ma ci sentiamo di rassicurarla: ci siamo passati tutti.
“Toronto è stata un’esperienza bellissima. Non avevo idea di cosa fosse un Parapanamericano, non avevo mai viaggiato così lontano. L’importante è godersela, e non solo da un punto di vista sportivo, ma anche saper sfruttare le opportunità che ci arrivano, nel momento in cui ci arrivano. Io ad esempio economicamente non me lo sarei potuta permettere, però mi sono allenata tanto per far si che il viaggio valesse la pena. E in realtà vale comunque la pena viaggiare, per come ti cambia, ti apre la mente, ti arricchisce di esperienza. Quando ho iniziato a giocare ero molto bambina, no, mi pesava molto parlare con le persone, mentre grazie al basket si è costretti a interagire con un folto gruppo di persone, a partire dalle tue compagne di squadra, e si crea un rapporto di fiducia, sia a livello individuale che collettivo”.
La nazionale femminile a Toronto è arrivata quarta, e si è classificata per RIO 2016, mentre la maschile, medaglia di bronzo, no, perché i posti erano due. Il campionato, invece, si gioca insieme, maschi e femmine. Spiega Silvia: “anni fa c’erano i due campionati, maschile e femminile. Poi però è diventato più difficile a livello di organizzazione e quindi si è deciso di unificare i due campionati”. Del resto questo avviene in molti paesi, tra cui anche l’Italia.
“A me ha aiutato molto la mia famiglia. Ci sono giorni che mi costa molto alzarmi dal letto e andare avanti, però ce la faccio con il loro appoggio. Da quando gioco a basket la mia vita è molto piena, e la cosa più complicata sono gli spostamenti. All’inizio mi arrabbiavo parecchio perché gli autobus spesso non si fermano, perché magari non hanno voglia di tirare giù la piattaforma. Però adesso sono più serena, e bendisposta, e molte volte quando mi succede mi limito a sorridere e capisco anche lo stato d’animo dell’autista: avrà avuto una brutta giornata. Perché in ultima analisi è questo che lo sport mi ha dato: serenità”.