Di Diana Pintus
Nadia Bala ha 28 anni, è di Rovigo, e gioca a pallavolo da sempre, e da sempre ha per questo sport un amore infinito: “per me la pallavolo significa passione, amicizia, perché c’è una squadra di mezzo, agonismo e benessere, e gli stessi aggettivi li posso usare per esprimere cos’è per me il sitting volley”.
Emozioni che, continua Nadia, “Quando entri in campo entrano a far parte di te. Io non riesco a immaginare la mia vita senza pallavolo, senza sitting volley. Per questo io credo che divulgare questo sport sia estremamente importante. Possono giocarci tutte le persone che hanno una disabilità fisica e che hanno un buon controllo del bacino. Ed è uno sport che magari può anche non piacere – ammette – ma che secondo me tutti quelli che possono dovrebbero provare, almeno una volta nella vita. Perché vederlo è una questione, ma provarlo è un’altra cosa.
Con la sua associazione Vinci l’Epilessia ha fondato l’anno scorso il premio Fair Play, che ha consegnato ieri sera, un premio che serve a trasmettere un valore per lei fondamentale, non solo in quanto ex arbitro, nel 2011 aveva iniziato a fare l’arbitro di pallavolo, ma come atleta e come persona: il rispetto. “Rispetto per me non vuol dire solo seguire le regole, ma amare l’altro per quello che è, e per ciò che è rispettarlo. Nel sitting volley c’è un’usanza che adoro: quando si va sottorete per il saluto alla squadra avversaria, ci si scambia un dono, una cosa piccola, possono essere delle spillette o della cioccolata, ad esempio. Questo secondo me è rispetto: si gioca al massimo, ma si dà valore all’avversario dentro e fuori dal campo”. Rispettare l’avversario, secondo Nadia, vuol dire anche saper perdere: “io adoro vincere, ma un atleta vero quando perde, appunto, nel rispetto dell’altro, sa che deve allenarsi di più, mentre un non atleta si riconosce perché inizia ad accampare scuse”.
Unica squadra di sitting volley nel veneto, l’associazione Vinci l’Epilessia, che si appoggia alla polisportiva Qui Sport Trecenta è nata in una data che per Nadia è molto importante ricordare, il 1 maggio 2014, cioè esattamente un anno dopo il brusco cambio di direzione presa dalla sua vita. Il 1 maggio 2013.
“Non ho avuto nessun sintomo, zero assoluto. Ho iniziato con tre crisi epilettiche mentre stavo mangiando, è iniziato tutto così. L’anno successivo è stato un anno molto duro, ho dovuto affrontare delle cose fisicamente strazianti, per fortuna ho avuto il supporto della mia famiglia e delle persone che mi vogliono bene. È stato un anno di ospedali e letto, un anno di inferno. Sono rimasta praticamente chiusa in casa. L’associazione è nata per me stessa e per tutti gli altri disabili che io vorrei uscissero di casa. Io mi sono detta basta, o esci di casa o esci di casa. La vita è questa, o la accetti o la accetti. Allora, negli ultimi tre mesi di quell’anno terribile, un anno in cui comunque continuavo a guardare le partite di pallavolo, ho iniziato a ritornare nelle palestre per vedere gli amici, e non mi rassegnavo al fatto che non avrei più potuto giocare. Con un mio amico e i ragazzi del mio direttivo ho detto: devo cambiare la mia vita, devo tornare a giocare, come facciamo? Facciamo nascere il sitting volley. Non per niente il simbolo della mia associazione è una palla da pallavolo con il fiocco viola”.
Nello stesso anno, il 2014, Nadia viene nominata dalla Federazione Italiana Pallavolo (FIPAV) commissario provinciale del sitting volley per la provincia di Rovigo, e un anno dopo, venerdì 17 aprile 2015 viene chiamata per il primo raduno della nazionale: “è stata un’emozione incredibile. Non mi sembrava vero, perché quando giochi a pallavolo per tanti anni e vedi le partite di serie A e della nazionale, non ci pensi che finirai in nazionale, men che meno paralimpica. Tutto avrei detto, ma se tu nel 2013 mi avessi detto: Nadia tra 3 anni giocherai nella nazionale di sitting volley, non ci avrei scommesso un centesimo”.
Invece succede, e siccome la vita di Nadia continua ad essere punteggiata di date importanti e di numeri ricorrenti è di nuovo un 17 (come è venerdì 17 oggi) a segnare una nuova svolta nella sua nuova vita: “neanche un anno dopo, il 17 marzo 2016 sono andata a giocare il torneo di qualificazione paralimpica, che si è tenuto dal 17, appunto, al 25 marzo, in Cina”. Un torneo in cui è proprio la squadra femminile di Nadia a fare il colpaccio: “abbiamo portato a casa la prima storica vittoria del sitting volley italiano, perché i maschi non avevano vinto nessuna partita agli Europei. Un giorno io potrò dire: io c’ero, alla prima storica vittoria io c’ero, sono soddisfazioni grandi. Poi per una pallavolista come me che capisce il vero senso di questo sport, che ama la pallavolo in questo modo”.
Non è egoista nell’assegnare i meriti di quell’impresa, Nadia: “Andare in Cina è stato merito non solo di noi atlete, il nostro allenatore, Guido Pasciari, ci ha seguito moltissimo, e anche il nostro team manager Roberto Centini. Hanno fatto per noi cose assurde. Noi eravamo in Cina, e il manager, immagina, doveva seguire 16 persone in un paese straniero, come la Cina poi, quindi veramente diverso dall’Italia, 24 ore su ventiquattro. Il coach ha lavorato per un anno con atlete che venivano da tutta Italia, con disabilità diverse, e sì, alcune giocavano a pallavolo prima ma…guarda me ad esempio, io si giocavo a pallavolo, ma ritrovandomi con una disabilità ho dovuto adeguare la mia disabilità alla pallavolo, al sitting volley. Non è facile. Ci vuole una grande capacità di motivare le persone”. Nadia ha ringraziamenti per tutti: il Comitato Italiano Paralimpico e il suo presidente Luca Pancalli, la Fipav, in particolare il presidente Magri e il consigliere per il sitting volley Cecchi, le compagne di squadra, lo sponsor tecnico, l’Erreà: “Dallo sponsor tecnico abbiamo avuto di tutto di più. Ci hanno dato anche la tuta per andare in Cina, una tuta completamente diversa, bianca per essere belle. La nostra tuta era una delle più belle, stretta e pantaloni stretti, eravamo le più stilose, tutte le nazionali venivano a guardarci”. Non fa un mistero, Nadia, di essere vanitosa: “per fortuna sono ritornata ad essere vanitosa. E non a caso dico per fortuna. Prima di stare male ero molto vanitosa. Adoravo il tacco 12, i vestiti da sera, dovresti vedere quanti vestiti e gonne ho io a casa, anche questa cosa il fatto di non poter più mettere il tacco 12, vestiti da sera, di non voler più far vedere le mie gambe, di non vestirmi più bene e di non sentirmi più bella, mi ha devastata psicologicamente. Oggi quando mi guardo allo specchio non vedo la carrozzina come il primo periodo, in cui mi guardavo e dicevo: sono brutta, che vita farò, la mia vita è finita Adesso per fortuna sono ritornata a essere vanitosa e a piacermi, e questo mi ha ridato la mia felicità”.
Grazie allo sport è tornata a vedere il bello di sé, Nadia, e il motivo per cui tiene molto a ringraziare tutte le istituzioni e le persone che hanno appoggiato la nazionale di sitting volley nella sua avventura cinese e non solo è che: “credono in noi perché hanno visto il bello di noi. Hanno visto in noi delle atlete e non delle disabili. Questa cosa è una cosa che ho notato anche nel modo di parlare. D’altronde non ci sarebbe da stupirsene: quando si fa sport agonistico tu federazione tu sponsor, se vedi una persona con disabilità hai già sbagliato. E quindi non crederai mai in me. Nel momento in cui vedi un’atleta vuol dire che crederai in me. Perché se tu metti una persona in un torneo di qualificazione paralimpica pensando che si siederà a terra e non giocherà come fai a credere in lui? Come fai a metterci soldi, a sponsorizzare, a invesitire? Non lo fai. Loro hanno visto in noi delle atlete determinate a vincere. E vedono tutt’ora secondo me delle atlete che giocano a sitting volley determinate a vincere, a dimostrare che non stanno giocando a strisciare per terra, passami il termine perché l’ho sentito dire dalle persone che non credono in questo sport, ma a sitting volley. Noi siamo atlete paralimpiche. Noi non ci sediamo per terra e strisciamo. Noi giochiamo per terra come un pallavolista che gioca in piedi. Abbiamo la stessa determinazione, la stessa sana cattiveria, la stessa tecnica, abbiamo tutto quello che ha un pallavolista in piedi”.
Con un’unica differenza: avere il sole in faccia.
“Io ho cominciato a vivere e a vedere la vita in maniera diversa. È come quando sei in piedi e vedi il cielo in un modo, e quando ti siedi lo vedi in un’altra maniera, però lo vedi, semplicemente da un’altra prospettiva. Io mi godo la vita, me la godo in una prospettiva diversa, più solare. Quando sei in piedi il sole non ce l’hai addosso, perché ovviamente guardi davanti, quando sei seduto per terra o sei seduto in una carrozzina, il sole ce l’hai in faccia, perché tendi comunque a guardare le persone in viso, e quindi ad alzare il viso. Il modo in cui sto vivendo adesso la vita è un po’ più solare, perché mi sto godendo la vita così come viene. Prima mi facevo tremila problemi, per qualsiasi cosa. Per cose futili, insomma, come ce li facciamo tutti. Adesso sorrido sempre, per tutto, perché mi godo tutto quello che viene, tanto che la gente mi dice, ma tu ridi sempre? Sì, ma non è un sorriso finto, è un sorriso vero. Dopo quello che ho passato mi continuo a ripetere: la vita è bella, io sono fortunata. Nonostante tutte le pastiglie che prendo al giorno, nonostante i mille controlli, nonostante tutto il resto, io sono fortunata perché posso fare lo sport che amo, che amo da matti, sto con le persone a cui voglio bene, sono abbracciata dal sole. Se prima davanti a me vedevo un po’ di sole e un po’ di ombra ora ho proprio il sole in faccia”.