di Chiara Laurenzi
Quando si è al timone di una squadra, è un pò come stare dietro ad una macchina da presa, in cui si valutano le azioni, i tiri, e tutto ciò che ha a che fare con quello che determina la vittoria o la sconfitta. Stare dietro la macchina del Santa Lucia significa trainare un carrozzone fatto di professionisti, di competenza, di esperienza, soprattutto. A Carlo Di Giusto è affidata la direzione di una grande squadra che ha fatto la storia nazionale . Venire a conoscenza anche del punto di vista di un allenatore, è sicuramente fondamentale. E spesso, è come guardare attraverso un obiettivo, con una carrellata di immagini in movimento diverse da quelle già viste.
Come hai iniziato? E come mai il basket in carrozzina ?
Fui contattato la prima volta da un ragazzo che mi conosceva, che aveva avuto un incidente sulla moto e aveva iniziato a giocare a pallacanestro in carrozzina. Era il 1978, e il ragazzo era Massimo Goretti. E in un periodo confuso a livello accademico ( all’epoca ero iscritto alla facoltà di Giurisprudenza), iniziai dopo due anni proprio al Santa Lucia, dove si facevano diverse discipline . La pallacanestro era ancora in fase embrionale, e tra tutte le discipline, col passare del tempo mi ritrovai proprio nel basket ! Dopo varie vittorie, vincemmo il primo titolo italiano, e pieno di soddisfazioni, ho iniziato a dare anima e corpo a ciò a cui ho creduto, trasmettendo passione e voglia a chiunque si sia voluto avvicinare a questa disciplina.
Cosa significa, per un allenatore, vivere in questo mondo ? Con quali occhi Carlo Di Giusto vede lo sport, gli atleti, e questa dimensione specifica ?
Quello che m’ha spinto verso questa nuova via, fu l’incontro con Luca Pancalli, a giugno del 2002, che mi disse di getto di smettere di giocare e prendere in mano la Nazionale ! A freddo, rimasi a bocca aperta, anche se non accettare era da pazzi ! Vista la mia militanza come atlteta, avevo vissuto direttamente quello che potevano essere le pecche e le mancanze, le potenzialità dei giocatori e ciò che mancava e che serviva tirando fuori il meglio. Dopo la prima partita, giocata a Sassari, partecipammo ai campionati europei partendo da outsiders, e vincendo per la prima volta in assoluto. Questo ci portò alla partecipazione delle Paralimpiadi di Atene, ma soprattutto, lanciò me stesso alla guida della Nazionale Italiana . A livello internazionale, eravamo una squadra sconosciuta, e ad Atene conquistammo il 6° posto ! Il passaggio da giocatore ad allenatore non è semplice : devi gestire tante teste, oltre che te stesso, e non sempre è facile. Ma il risultato immediato l’ ho raggiunto con entrambe le squadre, con la Nazionale prima e col Santa Lucia dopo. Ce l’avevo un pò nel DNA, perchè già quando giocavo in campo, al di là delle prestazioni personali, davo indicazioni ai compagni su come schierarsi in difesa, quali movimenti fare .. c’è da dire che gli allenatori me lo permettevano, perchè in campo c’è sempre il rispetto dei ruoli.
Infatti, proprio a riguardo, ho una domanda da farti : per te, che caratteristiche mentali deve avere un atleta per riuscire a vivere lo sport al 100%, e a vivere quindi la sconfitta e la vittoria durante le gare ?
Secondo me, quello che deve avere un’atleta per diventare o rimanere un campione, è di essere umile e rimanere critico nei propri confronti prima di giudicare un errore dei propri compagni o di un tecnico del campo, un fisioterapista , o dell’allenatore : bisogna fermarsi un attimo e dire : ok, quali sono i miei limiti ? Dove sbaglio ? Non tanto nell’errore tecnico, ma nei rapporti. E poi la consapevolezza di vivere sempre l’allenamento,o la gara, con la passione e il divertimento. Perchè è come il lavoro e qualsiasi cosa si affronta nella vita: se uno si sente costretto, non riuscirà mai a farlo, non riuscirà mai a viverlo con quella forza d’animo e a dare il meglio di sè stesso. Quando si fa una cosa che piace fare, sono convinto che lavori meglio e a dare il meglio di te stesso. Questi i tre punti salienti,secondo me, insieme ovviamente al rispetto, che bisogna sempre avere, verso i propri compagni, gli avversari e verso tutte le persone che lavorano e permettono ad un giocatore di fare una gara : gli arbitri, gli ufficiali di gara, etc.
E tu come vivi le sconfitte e le vittorie ?
Sempre in maniera critica, ovvio, è il mio lavoro. Cerco di capire, in primis, se è stato un mio merito o demerito, valutare cosa avrei potuto fare o no, il tipo di difesa,l’approccio alla partita, il tipo di allenamento fatto durante la settimana, su cosa bisogna lavorare.. ed è ovvio che comunque, se vissute nella maniera giusta e come insegnamento, spesso sono utili . A volte, grazie alle sconfitte, siamo cresciuti e rinati, così come è successo con il Santa Lucia, un percorso che ormai ci vede da 35 anni protagonisti del mondo paralimpico. E il basket, per storia, rappresenta l’apice di quelli che sono gli sport di squadra per paralimpici. Dopo questo, si affronta, assieme agli atleti, su come comportarsi la volta successiva, sempre dando il segnale che l’ultima decisione spetta all’allenatore, affinchè nessuno fraintenda che una decisione sia stata presa da un compagno di squadra.
Tu, comunque, ormai sei un tecnico, sai fiutare cosa manca o cosa serve di più..
.. sono anche agevolato e fortunato, perchè la maggior parte dei giocatori che fanno parte del Santa Lucia, sono stati miei compagni, e conosco le qualità caratteriali di alcuni di loro, e che vanno oltre il rapporto giocatore-allenatore. Questa è una bella particolarità di questa squadra, ovvero avere un gruppo omogeneo, e avere una continuità, senza dover ogni anno ricreare un gruppo, e stravolgere la Rosa, ma facendo degli innesti ma mirati. Attualmente dei 13 giocatori che fanno parte della Rosa, sicuramente una delle scelte che faccio è di non prendere persone nuove, prima di averli valutati o conosciuti, anche se sono campioni : a me non interessa prendere un campione, se poi so che come uomo vale poco !
Foto : www.facebook.com