Di Valentina Grassi
Il canottaggio è uno sport di origine antichissima. Infatti, si ritiene che già gli egizi remassero sulle acque del Nilo. In epoca decisamente più recente, fu la Gran Bretagna a farsi portavoce di questo sport meraviglioso, esportandolo ovunque nel mondo. In Italia, furono i piemontesi di fine ‘800 ad appassionarsene seriamente, trapiantando la voga anche a Roma. Ciononostante, lungo tutta la penisola, nelle zone costiere, lacustri e fluviali, da sempre si hanno ricordi e tradizioni remiere.
Finora, l’Italia ha avuto l’onore di dare i natali a moltissimi atleti olimpici e paralimpici vincitori di medaglie internazionali importantissime. Dai mitici fratelli Abbagnale, passando per Pettinari e Luini, non da ultimo Di Costanzo, il remo tricolore ha regalato enormi soddisfazioni ed emozioni al grande pubblico. È uno sport fatto di eleganza del gesto tecnico, di ferrea resistenza al dolore e alla sofferenza, di determinazione e, a mio avviso, di una buona dose di follia. Da decenni disciplina olimpica, è stato introdotto nelle Paralimpiadi nel 2008 a Pechino. E l’Italia Para-Rowing, quell’anno, vinse la medaglia d’oro.
Mi chiamo Valentina Grassi e ho partecipato ai Giochi Paralimpici di Rio de Janeiro 2016. Sono la prua del 4 con LTA Mix.
La mia esperienza sportiva è piuttosto singolare.
Ho iniziato a remare nel settembre 2012, dopo aver guardato per caso la finale olimpica di Londra del doppio senior maschile, gara nella quale l’Italia ha guadagnato la medaglia d’argento con Alessio Sartori (già medagliato) e Romano Battisti. All’epoca venivo da molti anni di nuoto, attività bellissima ma troppo solitaria. Volevo cambiare, volevo provare uno sport di squadra che però non mi mettesse in difficoltà. Infatti, da ipovedente grave, non ho mai potuto giocare a pallavolo o basket o altri sport dove la vista è essenziale. Il canottaggio, invece, praticato remando spalle al traguardo, mi sembrava perfetto.
Così, mi sono unita al gruppo amatoriale del Circolo Canottieri Roma dove mi allenava – e mi allena tuttora – Bruno Mascarenhas, campione del mondo e bronzo ad Atene 2004. Era divertente: facevo parte di un equipaggio, mi trovavo all’aria aperta, potevo respirare fuori da una comune palestra e mi godevo Roma da una prospettiva inedita e privilegiata che pochi conoscono. Posso dire in totale sincerità che mi sono innamorata del remo la prima volta che l’ho toccato.
All’inizio del 2013 ho incontrato Dario Naccari, capo settore del para-rowing in Italia. Mi ha fatto sudare sette camicie sul remoergometro (macchinario mostruoso, faticoso e doloroso che riproduce su terraferma la remata). Sudata, ansimante, paonazza, non avevo idea di che cosa stesse succedendo. Ma alla fine secondo Dario potevo iniziare a remare a livello professionistico, così da entrare nella squadra della Nazionale paralimpica.
Ho partecipato al mio primo raduno di canottaggio a Gavirate, cittadina minuscola sul lago di Varese. Era maggio e c’erano 10 gradi. Non conoscevo niente e nessuno, non conoscevo il posto, le altre mi guardavano con aria sospettosa e tutto era una fittissima nebbia.
Chilometro dopo chilometro, sono arrivata al mio primo Mondiale. Eravamo in Corea del Sud, a Chungju, una piccola città a due ore da Seoul. È stato davvero emozionante: nella stessa struttura c’erano sia la squadra normo che quella para, tutte le nazioni partecipanti, un mix di colori e forme senza eguali. Era bellissimo.
Nel canottaggio paralimpico ci sono quattro diverse barche in gara:
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Il singolo AS (arms and shoulders) maschile, nel quale l’atleta rema seduto su un carrello fisso che, in verità, è un sedile, mentre è legato all’altezza del busto e delle gambe alla barca. Si tratta di un atleta di solito in sedia a rotelle, privo uindi dell’uso delle gambe.
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Il singolo AS femminile. Identico al singolo AS maschile, la sola differenza è il genere dell’atleta.
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Il doppio TA Mix (trunk and arms), nel quale ci sono due atleti di sesso diverso che possono remare utilizzando anche la potenza del busto. Sono, comunque, legati alla barca all’altezza delle gambe.
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Il quattro con LTA Mix (legs, trunk and arms), che si compone di quattro atleti vogatori e un timoniere. La barca è per metà maschile e per metà femminile. Sono atleti che possono completare l’intera remata nonostante la disabilità fisica o sensoriale.
Dovevo gareggiare nel doppio LTA Mix (barca non olimpica che si vede solo negli eventi minori) con Daniele Stefanoni, un ragazzo curioso, forte, intelligente e di cuore. Non vedevo l’ora, sentivo che stava per succedere qualcosa di fantastico.
Purtroppo, però, il sogno si è infranto prima ancora di arrivare ai barchini della partenza: per gareggiare dovevo essere classificata, cioè dei medici internazionali dovevano decidere in quale categoria di disabile visivo inserirmi. A causa di un disguido tecnico, non sono stata ammessa alla categoria che poteva salire sul doppio LTA e a tre giorni dalla batteria sono stata buttata fuori dalla barca.
Per me è stata una tragedia: mi ero allenata per dieci mesi per arrivare fino al Mondiale e nonostante l’impegno, la forza e la determinazione, non ho potuto partecipare per via di un cavillo burocratico. Non avendo riserve, anche Daniele non ha gareggiato e questo mi ha fatto anche più male.
Rientrata in Italia, tutti mi avevano già data per spacciata, credendo che avrei piantato i remi. Invece, sono tornata ad allenarmi, alzandomi alle 6 del mattino per andare a fare corsa e pesi, poi velocemente a studiare per gli ultimi esami all’università, per tornare, dopo un pranzo al volo, ad allenarmi per altre quattro ore. Non essendo di Roma, mi ero trovata una stanzetta in affitto di fronte al Canottieri Roma. Vivevo con un matto che trovavo di notte a fissare il muro della cucina nel buio pesto e uno che metteva a stendere la biancheria in camera sua perché pensava che gli avrei rubato i vestiti… se questo non è amore per lo sport, allora davvero non lo so!
La sera della mia festa di laurea, l’11 aprile 2014, ho mollato tutto e tutti e sono andata a Piediluco per una gara. Sinceramente, ripensandoci, è stata una sciocchezza. Ma a posteriori sono tutti profeti, giusto?
La stagione 2014 è stata la mia rivincita. Un argento in Coppa del Mondo e un bronzo ai Mondiali. Fantastico. Sono delle esperienze che ancora ricordo vividamente, come se fossero successe ieri. Ricordo i suoni, gli odori, i colori, le voci e le sensazioni. Ricordo che eravamo una bella squadra, compatta e sorridente. Eravamo forti.
Poi, nell’autunno del 2014 sono dovuta tornare a Berna per un secondo ciclo di radioterapia al tumore che mi soffoca i nervi ottici. Di per sé, non è una attività faticosa: sei steso su un lettino mentre un braccio laser ti gira intorno alla testa e ti bombarda di radiazioni. È durata mezz’ora ogni giorno per due settimane. Ma dopo, quando tutto è finito e sono tornata a casa, ho sentito le energie mancarmi improvvisamente. Avevo continuato ad allenarmi anche a Berna e il weekend dopo il rientro in Italia sono andata ad un raduno a Piediluco dove il mio test al remoergometro ha fatto davvero pena. Le batterie erano completamente a zero. Cocciuta come un mulo con la testa di pietra, non mi sono fermata. Ho continuato ad allenarmi cercando di tenere i ritmi dell’inverno precedente. Purtroppo, quella è stata una grandissima stupidaggine. Non mi sono voluta fermare da sola e così, sono stati due infortuni a fermarmi per forza nell’aprile 2015. Lo stomaco mi dava un bruciore folle, accecante, mentre il ginocchio non reggeva più grandi sforzi.
Ho imparato che è un atteggiamento da perdente vedere limiti dappertutto, ma lo è ancora di più non accettare l’esistenza dei limiti ed andare sempre ed inesorabilmente oltre. Da una parte, il primo estremo ti porta ad avere paura di tutto, ma il secondo ti priva completamente della paura e continui ad autodistruggerti senza sosta, finché non interviene un fattore esterno. Nel mio caso, i due infortuni.
Mangiandomi i gomiti dalla rabbia, mi sono fermata e mi sono curata. Non ho partecipato ai Mondiali di qualificazione paralimpica di quell’anno, sapendo che probabilmente mi ero giocata il posto in barca. L’equipaggio che si qualifica, di solito, è quello che gareggia alle olimpiadi.
Per fortuna questa leggenda metropolitana è stata brutalmente sfatata.
L’inverno del 2015 è stato crivellato di eventi spiacevoli e tristi. Personalmente, il periodo più brutto della mia vita. I primi mesi del 2016 sapevo che era giunta l’ora di tirare le somme: o ricominciavo ad allenarmi seriamente – sempre che gli allenatori della Nazionale fossero d’accordo – oppure avrei guardato le Paralimpiadi di Rio in TV come tutti.
Per risparmiare e non gravare sui miei genitori, ho lasciato la mia stanzetta in affitto, ho venduto i mobili e scaricato le mie cose tra il garage di mio padre e il monolocale di mia madre. Sono entrata in raduno a maggio e mi sono bruciata tutte le energie per restarci a ogni costo.
Nel frattempo, c’erano stati dei cambiamenti. Il capovoga dei mondiali del 2014 con il quale abbiamo vinto il bronzo, non poteva più gareggiare per motivi fisici. L’atleta che mi aveva sostituita durante i Mondiali di qualificazione non partecipava ai raduni per via di un grave infortunio. L’altra ragazza era stata fermata per doping. Era il caos, il delirio. Ma io me la cavo benissimo nella confusione.
Durante i due mesi di raduno a Roma, ho guardato i miei compagni allenarsi in barca mentre io restavo a terra a fare pesi o remoergometro. Faticavo da morire sotto il sole rovente, lo stomaco urlava dal bruciore e cercavo di tenere unito il ginocchio con gel, fasce elastiche e ghiaccio. Sembravo uno zombie: ogni occasione era buona per dormire.
Il fallimento di tutti i miei sforzi non era una opzione. Non immaginavo neanche di perdere. Io mi distruggevo di fatica e di impegno. Resistere alla fatica era il mio solo pensiero.
Agli inizi di agosto ci siamo trasferiti a Sabaudia, cittadina che adoro di tutto cuore. Piccola, pulita, sul mare, ventilata e disabled friendly. Dopo qualche giorno dal nostro arrivo, è arrivata la notizia: ero io la titolare sulla barca di Rio! Dall’emozione sono svenuta, ma non ditelo a nessuno. L’ho spacciato per un colpo di calore.
Le ultime settimane di allenamento sono state intensissime. Eravamo tutti stanchi, stremati, agitati e con i nervi a fior di pelle. Sentivamo che ormai era tempo di partire.
L’incontro a Fiumicino il 31 agosto è uno dei momenti che meglio ricordo. C’erano tutti coloro che durante la preparazione ci avevano sostenuti, supportati, incoraggiati e sopportati nei nostri momenti di buio. C’erano così tanti amici, parenti e familiari che non era facile resistere all’emozione.
L’arrivo al Villaggio Olimpico di Rio è stato come abbandonare il mondo reale ed entrare in un mondo dove la diversità è non solo la normalità, ma addirittura un punto di assoluta forza. Non è bellissimo da dire ma è la verità: per la prima volta in vita mia mi sono sentita totalmente a mio agio, circondata da persone provenienti da tutto il mondo che condividono le mie stesse difficoltà e riescono ad andare oltre senza fare domande.
Ho realizzato il mio personalissimo sogno di partecipare alle Paralimpiadi in due diversi momenti successivi. Il primo è stato l’ingresso al Maracanà quando lo speaker ha chiamato l’Italia. Sbandierare il tricolore che mi guarda dal portapenne sulla scrivania, essere insieme ai miei compagni, essere accolti in un tempio dello sport mondiale gremito fino all’inverosimile che gridava “Italia!”… e pensare che a causa della mia cocciutaggine potevo mancare questo momento unico.
Il secondo momento è stato l’arrivo al traguardo della finale paralimpica. In quel momento ho pensato “Ce l’ho fatta”. Ed è stata la sensazione più bella del mondo.
Siamo arrivati decimi, risultato non esattamente soddisfacente – soprattutto per l’impegno profuso – ma è stata una esperienza talmente travolgente e sconvolgente che il piazzamento finale è passato in secondo piano. Quando siamo tornati al pontile e siamo scesi, ci siamo tutti e quattro abbracciati in lacrime, consci di aver fatto qualcosa di eccezionale. La gara ti stressa e ti porta all’ansia totale, ma sapere che quella gara è una Paralimpiade, ti fa sorridere: tu sei lì, sono i Giochi Olimpici e sta capitando proprio a te.
Al rientro in Italia, mi ci sono volute tre settimane per riprendermi. L’adrenalina è crollata, la stanchezza ha preso il sopravvento e ho iniziato un routine giornaliera simile a quella dei leoni: dormivo venti ore, mangiavo quello che la leonessa – ovvero la mamma – aveva cucinato, mi facevo una doccia e tornavo a dormire. L’Olimpiade di prende da dentro e ti ribalta, ti scuote, ti mescola e ti sbatte con la forza di un uragano. Inoltre, abituata negli ultimi mesi a vivere, mangiare, allenarmi e dormire sempre con la squadra, rimanere da sola a casa, dormendo in una stanza tutta mia, era davvero stranissimo.
Riemergendo dal sonno profondo, mi sono man mano resa conto di che cosa fosse successo. Non si tratta solo della gara di per sé. Di gare ne ho fatte parecchie e sono tutte stressanti e faticose. Ma l’Olimpiade è di più. Le persone che ho incontrato, i sorrisi che ho ricevuto e che ho ricambiato, i volti dei brasiliani che ci hanno assistiti sempre con la gentilezza dolcissima dei carioca, i compagni di squadra, i compagni di viaggio, tutti gli atleti di tutto il mondo, i colori, i profumi, i momenti ridicoli ed i momenti di pianto, tutto mi è entrato nel cuore e si è radicato nel profondo.
Alla fine, però, quello che più mi resterà caro di questa esperienza è la possibilità di aver conosciuto davvero i miei compagni di squadra. Florinda, Tommaso, Luca, Eleonora e Fabrizio sono passati da essere miei compagni a miei veri amici.
Mi sono distrutta di fatica, facendo infiniti errori e navigando spesso a vista (cosa che per un ipovedente non è semplicissima) ma insieme a un pizzico di fortuna ci sono riuscita. Ho gareggiato alle Olimpiadi.