di Diana Pintus
Correre verso il futuro
Una delle prime cose che ci dice Claudemir Santos quando saliamo sulla sua macchina è che è andato in pensione l’anno scorso, dopo una lunga carriera come corridore paralimpico (100 e 200 m erano le sue specialità), due paralimpiadi e una medaglia d’argento (a Pechino 2008 nella staffetta 4 X100).
Ci basta poco per scoprire che è vero, ha appeso la scarpetta al chiodo, ma la sua vita di adesso non ha proprio nulla di quella di un pensionato.
Coordinatore, da qualche anno, del progetto Correndo Para o Futuro (Correre verso il futuro) dell’Instituto Superar, di Rio de Janeiro, l’impressione che Claudemir ci dà fin dai primi minuti del nostro incontro è di una persona che non si ferma davanti a niente: “il progetto in realtà non esisterebbe più, perché a partire da dicembre non è più un progetto finanziato”. Quindi è inutile che siamo qui, direte voi, non c’è più niente da raccontare.
E invece è proprio da qui che parte la nostra storia di oggi, da un progetto che non c’è più per colpa della mancanza di risorse, della crisi economica, insomma, per colpa dei soldi.
“Noi brasiliani siamo famosi per quella che si chiama l’arte di arrangiarsi, e questa definizione è spesso applicata in senso negativo. Ma in fin dei conti possiamo dimostrare che siamo migliori di ciò che pensiamo e utilizzare questa capacità in positivo, no?”. Come in questo caso: “per quanto riguarda i soldi in qualche modo ci si arrangerá, ma io, personalmente, non posso abbandonare questo progetto, perché in questo progetto sono coinvolti i miei ragazzi, e io non posso proprio abbandonarli”.
Ce li presenta a uno a uno, con l’orgoglio di un padre, i suoi ragazzi, Claudemir: “sono circa venti in tutto, ma oggi ne conoscerai molti di meno, hanno appena ripreso ad allenarsi dopo le vacanze e dopo una gara cui hanno partecipato a Curitiba”. I risultati sono stati buoni, anzi ottimi, oltre le migliori previsioni. “Te ne accorgerai quando glielo chiederai, più tardi. Sono tutti felicissimi di come è andata a Curitiba, si sono divertiti tantissimo”.
Più tardi, cioè dopo l’allenamento.
Dopo essere entrati dentro la pista, letteralmente, visto che “oggi fai l’allenamento insieme a loro, così vedi bene come funziona ”. Per la serie non credere di scamparla, e infatti non la scampo, e mi riscaldo, mi allungo, stiro e saltello insieme a Roberta, Willians, Hugo Daniel, Márcio, Matheus, Márcio Lucas e Tayana, sulla pista del Centro di Educazione Fisica (CEFAN) della Marina Brasiliana, dove fervono i lavori di riadattamento degli impianti pre Olimpiadi e Paralimpiadi.
Entrare in pista, entrare dentro, entrare in una famiglia.
Il cerchio magico
Questo è quello che Claudemir e i ragazzi mi regalano nella giornata passata insieme. E quando, ad allenamento finito, ci sediamo a conversare, viene naturale farlo tutti insieme, come nelle migliori famiglie, e a me, più che di chiedere, viene voglia di rilassarmi e ascoltare, rilanciare, consigliare e conoscere. Nel buio del bordo pista ci si vede anche senza le luci dei riflettori, e nel cerchio che diventa magico piano piano vengono fuori come lucciole le voci di tutti quei ragazzi, diversissimi tra loro per età, provenienza, educazione, carattere, ma che grazie all’atletica diventano un coro armonioso.
Ognuno – mi raccontano – è capitato lì grazie al consiglio o all’ispirazione di qualcun altro. Dice Tayana, affetta da artrogriposi, una malattia congenita che causa rigidità articolare: “io ho sempre odiato lo sport. O meglio, non è che lo odiavo, non mi è proprio mai venuto in mente di fare sport, anche se ogni tanto qualcuno me lo proponeva. Ma io niente…Poi, dopo che ho saputo quello che era successo a Marcio Lucas, e con che coraggio l’aveva affrontato, beh…mi sono motivata a provare, e adesso non potrei vivere senza l’atletica”. Marcio Lucas è giovanissimo ma è il veterano del gruppo. Ha perso la gamba per colpa di un’infezione batterica che ha contratto giocando a calcio e non ci ha pensato due volte a rimettersi a fare sport. Roberta invece, che ha 32 anni, si avvicina allo sport durante la riabilitazione dopo un incidente d’auto “che ha avuto tante complicazioni che ora non è necessario raccontarle proprio tutte tutte. Il problema fondamentale è stata la dislocazione del bacino, e tanto è stato problematico questo problema del bacino che alla fine il fatto che mi abbiano amputato una gamba lo considero un fatto senza troppa importanza”. Dietro consiglio di alcune persone che ha conosciuto durante la riabilitazione e con il benestare del suo medico, inizia a fare paracanottaggio. “L’ho fatto per anni, e mi piaceva da morire. Poi un giorno avevo una gara importante. Tutti, a partire dal mio medico, mi sconsigliavano di partecipare, non ero in ottime condizioni fisiche e avrei potuto farmi male. E per farmi male intendo farmi male davvero! Ma io niente, testarda come un mulo ho deciso di partecipare alla gara. E mi sono fatta male. E niente, fine della mia carriera con i remi”.
I disabili vanno di moda
Poteva restare in casa a piangere, Roberta racconta. E forse per un po’, il tempo giusto, l’ha fatto. “Poi questo soggetto qua – passa di nuovo il merito a uno dei compagni, Willians – che remava con me, mi ha fatto conoscere il progetto, e sono stata catapultata in questa famiglia meravigliosa, in cui tutti lavoriamo per tutti, insieme, giorno dopo giorno, guidati da una persona speciale, Claudemir, che é speciale davvero: come atleta, come professore e nella vita privata, con la sua famiglia”.
Willians è molto cattolico e sogna di conoscere Assisi, la città di San Francesco. “Scrivilo: io sono molto più felice da quando ho avuto l’incidente. La disabilità mi ha fatto aprire gli occhi, mi ha fatto acquistare molta più sensibilità rispetto ai problemi delle altre persone. Quanto al progetto, sono felicissimo di essere parte di questa famiglia”.
Famiglia.
E’ la parola che più vola in questo cerchio tormentato dalle zanzare, in questa notte di fine estate che viene subito dopo un’esperienza condivisa, la tappa del circuito caixa di atletica a Curitiba, vissuta insieme, intensamente e – dicono i ragazzi uno per uno e di nuovo in coro: “sopratttutto senza pressioni, che poi è quello che differenzia questo progetto da tanti altri”. Aggiunge ancora Roberta: “l’anno scorso in una competizione sono rimasta molto colpita dalla reazione di un’altra ragazza di un’altra associazione. Ha lanciato il giavellotto, solo che non l’ha lanciato tanto lontano quanto voleva, quanto il suo allenatore voleva da lei, e lei, subito dopo il lancio è scoppiata in lacrime. Era terrorizzata da quello che le avrebbe detto il suo tecnico. Ecco, quello che secondo me differenzia questo gruppo da tutti gli altri è la totale assenza di pressioni, di obblighi: non c’è l’ansia del risultato. Forse proprio per questo i risultati arrivano”. Come sono arrivati a Curitiba, buoni, anzi ottimi, oltre le migliori previsioni. Visi contenti, facce soddisfatte, in questo cerchio, e la volontà di raccontarsi l’un l’altro, di sostenersi, di crescere insieme.
Famiglia.
Una famiglia che è una famiglia non solo nel tempo di allenamento, una famiglia che non ha paura di aprirsi, di entrare in contatto con l’esterno, di scambiare idee e esperienze, di contaminarsi. “Perché raccontarsi serve agli altri ma serve anche a noi, per conoscerci meglio, per andare avanti”– riprende Claudemir, quando siamo ormai già sulla strada del ritorno. “Io per primo ho iniziato a fare sport perché i media ne hanno parlato. Io sono un militare, e ho avuto un incidente sul lavoro. Stavo maneggiando una granata difettosa, ed è esplosa. Così ho perso un braccio. Mi sono avvicinato all’atletica dopo alcuni servizi che sono andati in onda durante le Paralimpiadi di Atene 2004. Se i media non avessero divulgato lo sport paralimpico non avrei mai saputo della sua esistenza. Per questo è molto importante parlarne”.
Ma attenzione, bacchetta, non solo fino a settembre, non solo fino alle Paralimpiadi.
“I disabili vanno di moda! Scrivilo pure nel tuo blog, che lo penso. Io voglio vedere dove finiranno tutti i giornalisti che adesso ci puntano addosso i riflettori quando tutto questo marasma sarà finito. Secondo me non ci darà attenzione più nessuno, e allora sarà sempre più difficile portare avanti progetti come questo. Anche perché si perderà una cosa che io considero importantissima: lo scambio. Il fatto che tu sia venuta qui oggi, affrontando i problemi del trasporto pubblico di Rio de Janeiro, la distanza, il caldo, perché è importante? Perché allo stesso modo in cui tu parlando con i ragazzi conosci cose nuove, così loro ne conoscono altre, che fanno parte del tuo bagaglio personale e culturale, tanto più che tu vieni da un altro paese. Io credo che questo scambio per loro sia fondamentale”.
Il ketchup sulla pizza
Uno scambio che comprende lo sport, la vita, persino la pizza:
“ma è vero che la pizza italiana non c’entra niente con quella brasiliana?” – mi chiedono, anche loro come tantissimi altri. Inizio il solito confronto, specificando che comunque le mangio volentieri entrambe, ma che si, è proprio un altro piatto: l’impasto steso più fino, condimenti leggeri, uno strato di pomodoro, uno di mozzarella, e soprattutto niente cornicioni farciti di formaggio o cioccolata.
“E poi…c’è un’altra cosa che da italiana proprio non posso accettare. E se dicessi ai miei amici o alla mia famiglia che i brasiliani hanno questa abitudine loro ne rimarrebbero veramente stupiti…”
Mi interrompe Marcio Lucas:
“ma perché scusa, in Italia non ci sono molti amputati?”
“macchè, si che ce ne sono… io parlavo del ketchup sulla pizza!”
Quella sì che è una differenza impossibile da accettare.
“A volte le persone non riescono proprio ad accettare il diverso, l’imperfetto. Prendi ad esempio il padre di Hugo, che è chirurgo plastico, e proprio non ce l’ha fatta. Appena ha capito che il figlio non avrebbe mai camminato se ne è andato, ha abbandonato il campo. È importante lavorare per far capire alle persone, a tutte le persone, che non ha senso pretendere dagli altri e da noi stessi la perfezione. Io sono favorevole a una classificazione funzionale delle abilità. Cioè, se per esempio io faccio il militare, e perdo una mano, questo non vuol dire che non possa più fare niente, magari non potrò più maneggiare granate, ma posso essere impiegato in altre funzioni, tipo guidare i mezzi ad esempio”.
L’importante è andare avanti, sempre e comunque, in difesa del futuro del paese, della società ma soprattutto degli atleti: “gli atleti hanno una carriera corta, e fra l’altro solo pochi riescono a vivere di quello che fanno. Per questo è importante costruire insieme a loro alternative, e investire nella loro educazione”. Già, investire, e non solo soldi. Anche perchè quelli non ci sono: “da dicembre siamo senza sponsor, e andiamo avanti solo grazie alla buona volontà delle persone. Io sono rimasto da solo a portare avanti questo gruppo, e lo faccio grazie a creatività e improvvisazione. Perché sennò è la fine”.
Ci sono storie e persone che ti entrano dentro. Concentrati com’eravamo sulla campagna di crowdfunding, cui comunque è importante contribuire attraverso il link
https://www.indiegogo.com/projects/storie-paralimpiche/x/13556404#/
ce ne eravamo un po’ dimenticati.
Grazie a Claudemir Santos e a i ragazzi tutti (Roberta, Willians, Hugo Daniel, Márcio, Matheus, Márcio Lucas e Tayana) per avercelo ricordato. Grazie per averci fatto entrare nel cerchio, e averci dato il privilegio di ascoltarvi.