Juan Foa, 38 anni, ama viaggiare. Ed è durante un viaggio in Svizzera nel 2003 che incontra il wheelchair rugby. “Ho conosciuto il rugby attraverso un mio amico fisioterapista che stava lavorando temporaneamente in Svizzera”. Oggi Juan è il capitano della Nazionale Argentina, nazionale che ha, di fatto, contribuito a creare, quando nel 2005, insieme all’amico Ignacio Rizzi ha portato il rugby in sedia a rotelle in Argentina. “Ignacio aveva creato la Fondazione Rugby Amistad, che sosteneva i rugbisti che si lesionavano. La fondazione fungeva, inizialmente, come ente responsabile del wheelchair rugby”.
Undici anni più tardi incontriamo Juan a ridosso di un allenamento cui partecipano circa dieci rugbisti. Arriva in ritardo, e nell’attesa ci concentriamo sulle linee del campo, il wheelchair rugby si gioca su un campo da basket, e sugli atleti che si riscaldano: sono quasi tutti tetraplegici, e ognuno spinge la sedia a modo suo. C’è chi la trascina meticoloso e chi gira le ruote freneticamente, chi spinge a ritmo e chi si muove un po’ affannoso. Le velocità si sovrappongono, le traiettorie si incrociano e noi ci ipnotizziamo, e ci ritroviamo, come spesso ci accade, con una voce di un altro tempo e di un altro luogo che ci risuona nella testa:
Vedi..la differenza sostanziale tra lo sport convenzionale e questo tipo di sport è che normalmente è la persona che si adatta alla disciplina, qui è la disciplina che si adatta alla persona…
Purtroppo non riusciamo a ricordare chi ce l’ha detto per primo, ma è un concetto che ci hanno ripetuto spesso. E se all’inizio ci era sembrata una banalità, adesso è un’idea che prende corpo, che ha una dimensione fisica. Lo stiamo vedendo, qui e ora, proprio davanti a noi. Ognuno si muove come può, e l’insieme è del tutto armonioso.
Juan si muove velocemente. È in ritardo, l’allenamento è già iniziato. Racconta e intanto si prepara: cambia di sedia, dalla convenzionale a quella da gioco, cambia di maglia, infila i guanti.
“Una cosa che ci tengo a dire e che dico sempre, è che quando ci succede un incidente, come quello che è successo a me nel 1999 – un tuffo sbagliato in una piscina – ci è successo un incidente, non è che siamo diventati un altro. L’essenza di una persona non cambia. Io avevo questo carattere anche prima, le cose che mi piaceva fare prima mi piace farle anche ora”.
Viaggiare, ad esempio. Di origini italiane, come buona parte dell’Argentina, Juan va spesso in Italia: “mi incanta l’Italia. È il mio paese di origine, e le origini sono le origini”. Il wheelchair rugby, invece, è entrato nella sua vita dopo l’incidente, e c’è sempre rimasto, dandogli non poche soddisfazioni: “i primi tempi abbiamo fatto venire persone degli Stati Uniti e del Canada a darci corsi di formazione, il che è stato utilissimo. In pochissimo tempo siamo cresciuti tantissimo, e anche il movimento in America Latina ha avuto uno sviluppo impressionante”. Tanto che la nazionale Argentina, pioniera del wheelchair rugby in Sudamerica, è rimasta fuori dai giochi di Rio: “negli anni gli avversari sono costantemente migliorati, un esempio lampante di questo è il Brasile, che negli ultimi anni ha investito tantissimo nel rugby in carrozzina. Il livello è salito, e di molto, e dunque è più difficile portare a casa risultati”. Risultati che in passato sono stati ottimi nelle competizioni internazionali, come ad esempio il primo campionato Panamericano, organizzato proprio dall’Argentina a Buenos Aires nel 2009, e vinto in finale contro il Brasile, e il mondiale di Vancouver, in Canada, nel 2010.
Finita la preparazione, e il racconto, Juan corre in campo, e ci lascia con Nico, giocatore infortunato, che quindi non ha fretta, che conferma: “chiaro, l’essenza non cambia. Dopo un trauma la sostanza di una persona rimane quella. Solo che dobbiamo ricostruirla, perché comunque il colpo c’è stato, e grosso, e non è facile tornare a fare una vita più o meno normale, però il rugby aiuta, perché innanzitutto ti mette in mezzo a persone come te. Il punto è che dopo l’incidente ci sentiamo profondamente diversi, da tutti gli altri e anche da noi stessi, da ciò che eravamo prima. Invece il rugby ti mette tra persone uguali a te, con cui non si ha paura ad affrontare temi anche molto difficili, e spaventosi, e al tempo stesso ti costringe ad avere dei limiti, dati dalle regole del gioco. Darmi dei limiti, secondo me, è la cosa più importante che posso ricavare dal rugby, perché sento di averne bisogno, sento che altrimenti non vivo bene”. Nico è un regista, e sta attualmente cercando di finanziare il suo primo lungometraggio: una storia che ruota intorno a una pompa di benzina. Improvvisamente ci ritroviamo a parlare di cinema, e di personaggi, e di storie, seduti al bordo di un campo da basket pieno di giocatori di rugby.
Magia di Storie Paralimpiche…
siamo in viaggio, di nuovo. In attesa di arrivare a Rio il nostro grazie, davvero enorme, va agli atleti, ai dirigenti, ai tifosi argentini.