Di Diana Pintus
DENTRO
“Finalmente siamo arrivati a Rio, ci siamo, ormai non si aspetta più, stiamo vivendo già la Paralimpiade e…che dire, è già emozionante fino adesso”.
Martina Caironi sceglie di iniziare a raccontarci così quella che è la sua Paralimpiade fino ad ora, come la sta vivendo, come la vuole vivere, da dentro: “finora non sono mai uscita dal villaggio, a parte oggi,proprio per vivermi a 360 gradi la vita del villaggio, il mondo che c’è all’interno: tutte le nazioni, tutte le disabilità, tutti gli sport concentrati, ed è bellissimo. Sono contenta di essere qua ed è già un sogno”.
Come per noi è un sogno entrare dentro insieme a lei. Perché questa è veramente la sua Paralimpiade. È la più veloce del mondo, la donna da battere, campionessa mondiale, prima donna amputata a correre i cento metri in meno di quindici secondi. È la portabandiera italiana, rappresentante dello sport paralimpico italiano nel mondo, e, come lei stessa riconosce, un punto di riferimento per tanti atleti, che le tributano omaggi che a volte lei stessa non si aspetta: “degli atleti che conosco da anni e di cui magari io non mi ricordavo sono venuti da me dicendomi: ciao Martina e io in genere non mi ricordo mai i nomi, e invece loro si ricordano sempre il mio, questo mi fa pensare che gli è rimasto qualcosa di me. Alcuni, dei ragazzi spagnoli e sudafricani mi hanno detto delle parole davvero bellissime, mi hanno detto: tu devi vincere anche per noi. Cioè, come se loro tifassero per me, e questo è bellissimo perché vedi proprio un’amicizia che va oltre gli spazi, e il tempo, anche”.
È cosciente che questo è il suo momento, Martina. Ma è una coscienza serena, umile, a tratti quasi incredula: “Mi godo il momento, perché so che il mio momento è adesso. È ora che sono al centro dell’attenzione, ed è un ruolo importante, che voglio vivere fino in fondo”.
Concentrazione massima, dunque, in attesa della gara di salto, che “sarà il dieci, sì, ma non si sa bene l’orario, continuano a riprogrammarla”. La testa alla vita dentro al villaggio, e agli equilibri che “sono tutti nuovi, da quando siamo arrivati qui, è cambiato tutto rispetto a prima di partire”. Eppure trova il modo, il tempo, le energie, per far saltare anche noi dentro all’atmosfera della squadra: “è un clima che si sta creando man mano, ci sono stati gioie e dolori già. Abbiamo condiviso momenti come l’essere intrappolati fuori dalla mensa con un acquazzone improvviso e abbiamo detto: benvenuti nel paese tropicale. Dove se piove piove come Dio comanda”. E ancora l’esigenza di concentrazione: “abbiamo fatto degli allenamenti, delle prove nel campo di riscaldamento olimpico, momenti anche di magari tensione, perché magari non mi uscivano determinate cose, tipo i salti, ancora non sono riuscita a farli come vorrei, però più si avvicina più sento che la concentrazione è fondamentale”.
FUORI
È la prima sera che esce dal Villaggio, Martina. Non progetta di uscire di nuovo, non prima delle Paralimpiadi, in questo momento non le interessa (dopo sì, dopo sarà il momento per viaggiare, per godersi il Brasile, per appassionarsi ancora di più di Sudamerica, lei, che ha questo sorriso che sembra venuto fuori proprio da qui).
“Perciò ho cercato di unire tutto quello che avevo da fare fuori. Dovevo fare delle riprese con loro, e ho pensato di dirlo anche a voi di Storie Paralimpiche”.
Loro sono la troupe del documentario sulla sua vita, l’Aria Sul Viso, diretto da Simone Saponieri. Il documentario, prodotto da Oki Doki, l’ha seguita nell’anno delle Paralimpiadi, nella vita sportiva e in quella privata, tappa dopo tappa, fino a qui, fino a Rio, fino a Martina che guarda l’oceano, un puntino di fronte al tramonto scuro, annuvolato, di questa sera sulla spiaggia di Ipanema, fino al ragazzo che spacca i cocchi verdi con il machete nel baracchino a bordo spiaggia. La seguiranno ancora, fuori e dentro.
La incontriamo fuori, Martina, ed è un incontro speciale, magico, in un momento che è speciale per tutti. Per lei, per noi, per la troupe che è entrata nella sua vita nel tentativo, spiega il regista, di raccontare lei al di là della sua immagine pubblica, di scavare nella Martina quotidiana, nascosta. Non è facile, dicono tutti, quasi in coro. In primis lei stessa: “i ragazzi stanno raccontando una storia che tocca me molto nel personale, nell’intimo. Stando così le cose è inevitabile, ci sono volte che non voglio essere ripresa, non voglio raccontare, è normale no?”. Al tempo stesso, prosegue Martina, “la relazione che si è creata con loro – prima non li conoscevo, conoscevo solo Simone, che era un mio compagno delle medie – è una relazione fortissima, sono stati con me in momenti in cui mi sono successe cose molto personali”.
Quanto a noi, possiamo solo ringraziarla, e mai abbastanza. Per averci voluto regalare l’emozione di entrare insieme a lei dentro alla Paralimpiade che sta arrivando, è già qui. Per averci donato il contrasto tra dentro e fuori, tra vuoto e pieno, un contrasto che non è netto e nitido ma profondo e confuso.
VUOTO
Il vuoto, ancora per poco, del Parco Olimpico che si inizia ad animare. Un luogo in apparenza non molto diverso da aprile, quando era vuoto, confuso, non si sapeva a chi chiedere, a chi affidarsi. Ma in realtà inizia il pieno, e sarà sempre più pieno, dentro il Villaggio Olimpico, dentro il Media Center, dentro, dentro dentro.
PIENO
Dentro, come Martina, che vedremo di nuovo domani dagli spalti del Maracanã, un puntino con la bandiera in mano. Al centro della scena, di uno spettacolo meraviglioso che sta per iniziare.
Il modo in cui ho trovato Martina sulla spiaggia di Ipanema ha dell’incredibile. L’ho raccontato a lei, forse non mi ha creduto. Lo racconto di nuovo qui, anche se forse non mi crederà nessuno, ma merita.
Arrivo alla metro General Osorio con la sua indicazione un po’ vaga: “saremo sulla spiaggia di Ipanema”. Avevo ostentato sicurezza: “ma certo, vi trovo io, non preoccuparti”, salvo poi morire di incertezze: “sicuro non la trovo…mannaggia agli appuntamenti vaghi ecc.”. Cammino fino alla spiaggia, e mentre attraverso la strada sento la voce di un ragazzo, poco più che adolescente, ovviamente brasiliano, che dice al suo amico tutto infervorato: “guarda, quella lì è la portabandiera italiana!”. Penso ovviamente di aver sentito male, mi sentirei meno turbata così, ma l’amico non ha sentito bene e quindi chiede: “che?”.
“Guarda, quella è la portabandiera italiana” – ripete il ragazzo. Cammino nella direzione in cui lui sta guardando, attraverso la strada, la ciclabile, la spiaggia e li vedo: Martina e la troupe, un puntino in lontananza.
Non ho la più pallida idea di come il ragazzo abbia fatto a vederli e a sapere che quella era “a abandeirada da Italia”. Mi piace pensare che sia perché l’interesse di Rio per le Paralimpiadi è vivissimo e investe tutti. Mi piace pensare che è stato il destino, che mi ha fatto andare a colpo sicuro nella direzione giusta.