Di Diana Pintus e Fabio Renzi
“Quello che manca andiamocelo a prendere. Incontro dopo incontro possiamo scrivere qualcosa di importante”. Con questa consapevolezza la nazionale Italiana di sciabola maschile in carrozzina è scesa in pedana ai mondiali di scherma, dal 7 al 12 novembre all’Hilton Airport Hotel di Fiumicino. In casa.
La squadra italiana, una squadra di romani e romanisti – Alessio Sarri, campione del mondo già nell’individuale, è di Cesano, Edoardo Giordan di Torrimpietra, Marco Cima di Vetralla e Andrea Pellegrini di Ladispoli – è andata a prendersi ciò che le mancava: una medaglia d’oro nella sciabola di squadra. Non era mai accaduto ed è successo in casa, di fronte a oltre cento tifosi. “È valso tanto essere in casa” – ci dice Andrea Pellegrini, che a 47 anni, un’età in cui molti altri avrebbero già appeso la sciabola al chiodo, si arrampica insieme ai compagni sul tetto del mondo. “Stoccata dopo stoccata non abbiamo perso la testa, abbiamo vinto una medaglia d’oro di gruppo, con cuore, amore e passione”.
Andrea racconta dei passi avanti che sono stati fatti dopo Rio 2016: “all’interno della squadra e con gli allenatori si è creata davvero una chimica incredibile, una specie di simbiosi. Questa medaglia è stata preparata molto attentamente, e il merito e il ringraziamento vanno al gruppo, al CT Marco Ciari, ai maestri Carmine Autullo e Emanuele Di Giosaffatte, oltre che agli sponsor, e in particolare all’azienda per cui lavoro, ITALPOL Italservizi, che mi ha consentito di prendere quasi due mesi di permesso per allenarmi”.
Il momento cruciale di questa vittoria costruita insieme assalto dopo assalto – secondo Andrea – ha coinciso con la chiusura di Edoardo Giordan: “a quel punto avevamo capito che non potevamo più perdere, e ormai la nostra testa comunicava telepaticamente. In più avevamo la grandissima forza che veniva dal pubblico, e non abbiamo perso la testa. È stato faticoso ma quando ti diverti non senti fatica”.
Ora però, fatta l’impresa, è necessario che il metallo più prezioso venga salvaguardato e protetto: “Come dicevo, dalle Paralimpiadi di Rio ad adesso è stato fatto un grande passo avanti a livello di persone, ora va fatto un passo avanti nelle strutture. Ladispoli, la mia città, poteva vantare l’unico club in cui si allenavano insieme normodotati e disabili. E questo è molto importante, perché noi non ci sentiamo disabili, ci sentiamo atleti, e il lavoro che c’è dietro è analogo a quello degli atleti normodotati. Ora questo centro non esiste più, mentre invece è necessario che ci sia una struttura idonea per esprimersi al meglio e dare una possibilità ad altri atleti di esprimersi, di non sentirsi diversi. Chiunque farà questo centro, al dì là dell’appartenenza politica, renderà un servizio all’intera comunità”.
Una comunità che Andrea per primo ha molto a cuore. “sono convinto che l’unica barriera sia nella mente di ognuno di noi, ed è la capacità di accettarsi. Se uno si accetta allora va incontro al futuro. È lì dove nasce la forza. Questo è quello che vorrei insegnare ai ragazzi, la possibilità, grazie allo sport, di tornare a sorridere e di regalare sorrisi. Che è stata una possibilità che ho avuto io, dopo il mio incidente”.
“Con delle difficoltà si possono realizzare dei sogni nel cassetto. Io poi di sogni, per quanti ne elimini da quel cassetto, ne ritrovo sempre uno nuovo”. Come ad esempio quello di un libro sulla sua esperienza, sportiva e umana, un progetto su cui noi di Storie Paralimpiche, con la collaborazione del fotografo Fabio Renzi, stiamo lavorando da un po’. Un libro che attraverso il dialogo tra la poesia delle immagini e la precisione delle parole convince e costringe Andrea a ripercorrere la sua vita sportiva e personale. Questo straordinario viaggio di squadra sul tetto del mondo non è altro che un capitolo della storia.