“Non si vince mai da soli. Quando un atleta porta a casa medaglie o qualche risultato buono è sempre merito di una squadra. Che poi non è per forza la squadra che vedi sulla linea di tiro che mette le frecce. Una squadra è fatta dall’allenatore, dallo psicologo, dal fisioterapista, dal preparatore atletico, dalla famiglia…”.
A dircelo è Elisabetta Mijino, trent’anni, di Moncalieri (TO), che fa parte della delegazione paralimpica di tiro con l’arco che andrà a RIO 2016. Laureata in medicina Elisabetta si è trasferita un anno fa a Parma, dove si sta specializzando in ortopedia.
Qual è la tua squadra, Elisabetta?
È formata da tutte le persone che comunque sono intorno a me e mi permettono di arrivare tranquilla dove voglio arrivare: i miei allenatori, Giorgio e Marco, la psicologa della Nazionale Annalisa, la fisioterapista Chiara, il preparatore atletico, mia mamma, i miei fratelli che mi aiutano, soprattutto mio fratello Gioele, che mi dà una mano tutti i giorni negli allenamenti, e il mio fidanzato Matteo, anche lui arciere, che è anche lui in Nazionale e che verrà a Rio, quindi mi capisce e non mi capisce, perché uno può anche vivere le stesse cose ma in maniera diversa. Spesso si vede l’atleta e non quello che c’è dietro, ma senza quello che c’è dietro non si va da nessuna parte. Io la vivo così.
Quando e come hai iniziato a tirare con l’arco?
Da piccola praticavo diversi sport Judo, equitazione, basket, danza, sci. Per me lo sport è sempre stato importante, e ho sempre espresso ai miei genitori l’esigenza di farlo. Quando mi sono trasferita da Torino a Grana dove ho abitato fino all’anno scorso c’era una signora che tirava con l’arco e siccome è uno sport che si presta alle persone disabili senza nessun problema mi aveva chiesto se volevo provare. Io ero interessata alla cosa, ho provato, mi è piaciuto. Ho fatto delle gare e sono andate abbastanza bene, via via mi è piaciuto sempre di più e alla fine mi sono accorta che non potevo non tirare. Sono stata tesserata la prima volta in federazione nel 1997, poi ho smesso per un periodo abbastanza lungo, per problemi relativi in parte a una serie di interventi che ho dovuto fare, in parte perché al liceo l’organizzazione era più complicata, io dovevo spostarmi per andarmi ad allenare e alla fine ho mollato, anche se non ho mai smesso veramente. Dal 2006 ho ricominciato un po’ più seriamente.
Cosa ti ha motivata a ricominciare?
A me è sempre piaciuto tirare, stare senza per me era una sofferenza. Nel momento in cui ho rimesso tutte le caselle della mia vita al posto giusto ho ricominciato a tirare in maniera più continuativa, era inevitabile che andasse così.ù
Che tipo di sport è secondo te il tiro con l’arco? Qual è la sua bellezza?
Benchéil tiro con l’arco abbia una fase di competizione a squadre è sicuramente uno sport individuale, un po’ come la scherma.
È bello perché ti dà la possibilità di stare all’aperto per gran parte dell’anno, anche se ovviamente quando fa freddo ci dobbiamo allenare in palestra (esistono anche i temerari che si allenano sempre all’aperto). A me piace molto il fatto di stare a contatto con la natura. Inoltre è uno sport che ti fa secondo me fare un percorso personale particolare: competi contro te stesso, perciò i risultati ricadono in primis su di te. Ovvio che poi vinci quando gli altri fanno meno di te, però la competizione è sempre con te stesso. È uno sport che richiede molta concentrazione, dove c’è sia una componente tecnico-atletica che una componente di materiale tecnico. In più è divertente.
Insomma, per me il tiro con l’arco è tanto, è tante emozioni, mi ha fatto crescere molto, vuoi perché devi superare delle difficoltà legate allo sport, e tu all’inizio non ci riesci, perché devi imparare, e ci vuole tempo.
Queste sfide a me piacciono molto, quindi ecco perché mi piace il tiro con l’arco. Poi ci possono essere altri aspetti che sono legati più alla mia situazione di atleta della Nazionale che non agli arcieri in generale: poter conoscere altri membri della squadra, di imparare a stare con gli altri, anche con persone che non ti sei scelto e crearci qualcosa insieme.
Ritieni che questo aspetto per te rappresenti una difficoltà?
Non è una difficoltà vera e propria, però sicuramente ho un carattere che non mi porta a socializzare molto facilmente. Non sono chiusa, però sono molto selettiva. Non sono una che ha cinquanta amici, ne ho pochi, conosco tantissime persone, però i miei amici sono molti meno. Non è che trovo difficoltà, però ho dovuto imparare a stare un po’ con tutti, ecco, cosa che per carattere non avrei fatto. Questo mi ha aiutato anche in ambito lavorativo.
A proposito di lavoro: com’è nata la tua passione per la medicina?
Come quella per il tiro con l’arco, cioè senza un vero motivo ma per un’unione di tanti motivi che poi alla fine mi hanno fatto maturare questa decisione, consapevole di tutta una serie di difficoltà e problematiche legate comunque allo studio della medicina, che non è facilissimo. È stata un’altra sfida. Ho fatto prima due anni di biotecnologie, perché non avevo superato il test di ammissione, poi ho riprovato e sono entrata Ho scelto la specializzazione in ortopedia perché mi piace molto la chirurgia, la chirurgia ortopedica è stata una di quelle che mi ha affascinato di più e quindi…
Però ecco, non posso dirti: il motivo era salvare il mondo, o curare i malati….mentirei.
Io ho avuto l’incidente che avevo cinque anni. Di medici, di ospedali nella mia vita ne ho visti parecchi, quello un po’ mi ha condizionato, però non posso dire che fosse per quello. C’era un interesse che ho scelto di portare avanti, c’era comunque la voglia di provare a fare qualcosa che io avevo vissuto su di me e che volevo che fosse fatta in un altro modo.
Tornando al tiro con l’arco, quali sono stati i tuoi risultati più significativi?
Ho avuto un esordio particolare. La prima gara internazionale l’ho fatta alle Paralimpiadi di Pechino nel 2008. All’epoca i meccanismi di selezione erano anche un po’ diversi, e quindi Pronti via… andiamo a Pechino!
Pechino è stata forse l’esperienza più divertente che io abbia mai fatto perché è la prima, quindi sei un po’ leggera, soprattutto quando parti così, senza preavviso.
Poi, altre grosse esperienze sono l’Europeo del 2011, dove ho vinto un oro individuale e un argento a squadre, poi di nuovo le Paralimpiadi, a Londra, nel 2012, dove ho vinto un argento. Poi nel 2013il Mondiale di Bangkok, dove non ho vinto niente perché ero ancora stanchissima dalle Olimpiadi. Nel 2014 ho vinto di nuovo un oro individuale e un argento a squadre all’Europeo. Al Mondiale del 2015 ho raggiunto un terzo posto individuale. Quest’anno non sono andata all’Europeo perché avevo impegni di lavoro. Nel mezzo ci sono state una serie di altre gare minori, anche all’estero, dove ho quasi sempre vinto.
Le vittorie più significative sono state quelle all’Europeo e le Paralimpiadi di Londra. A renderle più belle non è stato tanto il colore della medaglia ma lo spirito con cui ho partecipato.
Puoi raccontarcelo, questo spirito?
Ho un approccio alle gare, alla competizione tutto mio: la vivo come se dovessi andare ad archiviare una pratica, a recitare un finale già scritto. Tipo vado, mi prendo la medaglia e torno a casa. Non è per presunzione, però si sente dentro quando andrà bene, e si può dire: vado, vinco e torno.
E rispetto a Rio?
Rispetto a Rio non so ancora. Ho bisogno di tutto il tempo che ho a disposizione per capire come mi sento. Forse il giorno prima della gara te lo saprò dire….
E allora verremo a chiedertelo prima della gara.
L’appuntamento, con Elisabetta e con gli altri arcieri è l’11 settembre alle 9.00 orario di Brasilia!
Grazie a Fitarco e Guido Lo Giudice per la collaborazione.