di Marina Matteucci
Una palla, la pelle ruvida sui polpastrelli, il ritmo dei rimbalzi e un canestro. Lo sguardo che punta in alto, sempre. Non importa chi o come sei. Sei a casa.
Io sono cresciuta così e casa mia è una palestra. Non da sempre, ma da quanto mi possa ricordare sembra di si. Avevo sette anni e una faccia da topino quando mio padre mi portò “a basket” per la prima volta. Il primo, fatidico, incontro d’amore. Un colpo di fulmine. Da lì non ho più smesso e di anni ne sono passati ventuno. Anzi no, ventidue. Io, gli amici, addirittura i fidanzati. Tutto parte da lì. Da una palla, un canestro e da quello che c’è in mezzo. Da grande, sono diventata istruttrice minibasket, perchè non solo il mio è lo sport più bello del mondo (non me ne vogliate), ma è anche uno strumento potente sotto così tanti punti di vista che a elencarli tutti vi annoierei.
Proprio per questo abbiamo scelto di dedicare una rubrica a qualcosa che non vi annoierà. Tre brevi puntate per raccontarvi storie di basket che vengono dalle retrovie, storie Paralimpiche di quotidiana straordinarietà, viste con gli occhi di chi è fuori dal parquet. Il mio obiettivo è semplice quanto importante. Senza grandi velleità, spero di condividere con voi la meraviglia che scopro io, ogni giorno.
Le nostre storie straordinarie vengono dalle Marche. La prima gita fuori dal parquet si svolge al palazzetto dello sport di Porto Potenza Picena. Qui si allena il Santo Stefano basket in carrozzina e la prima puntata della rubrica è dedicata a loro.
Arrivo al palazzetto un po’ titubante, perchè sì la palestra è casa mia, ma questa è casa anche di altri e da buona ospite entro in punta di piedi. Il primo incontro è con Gianfranco, segretario generale della squadra e mio cicerone. Facciamo due chiacchiere e subito mi spiega le differenze nel regolamento tra il basket e il basket in carrozzina, i punteggi dati in base alla disabilità, le infrazioni, per lo più simili, il campionato, le squadre. Mi presenta l’allenatore e i ragazzi del roster, da dove vengono, i loro punteggi. Maggiore è il punteggio, minore è la disabiltà. Ci sono anche due ragazze in squadra e il loro ammortamento nel punteggio è calibrato anche in base al genere. Il quintetto deve rispettare un punteggio massimo di disabilità, per cui le squadre risultano sostanzialmente equilibrate da un punto di vista “clinico”. Alla fine è tutta una questione di quanti canestri fai tu e quanti di meno ne fai fare all’avversario. Insomma, è tutta una questione di basket. Mentre Gianfranco parla, io un po’ ascolto, un po’ butto sguardi fugaci all’allenamento dei ragazzi. Hanno iniziato il riscaldamento con un classico: “due file”. Ogni tanto perdo il filo del discorso e provo quella sorpresa pura della novità. Una sensazione che spesso da grandi si dimentica. Il modo in cui disegnano curve con il movimento del tronco è elegante e armonioso. La coordinazione e le capacità di anticipazione per disegnare la giusta traiettoria di tiro in movimento, strabilianti. Sono stupita da tanta semplicità. Non so dire il perchè, ma le mie aspettative erano diverse. Credevo che la difficoltà sarebbe stata più percepibile. Difficoltà nel governare l’ausilio, nell’adattare i movimenti al gioco. Invece l’unica difficoltà percepibile è la mia. A capire il gioco! Dopo ventidue anni di pallacanestro e mezz’ora di allenamento, non ho capito quasi nulla. E la cosa mi affascina ancora di più. Perchè l’unica che si deve adattare sono io, e in fretta anche. Siamo abituati a notare la difficoltà, ad aspettarcela. Qui, invece, saltano all’occhio le competenze di movimento, diverse da quelle abituali. E le sfumature di gioco. Dopo un’altra mezz’oretta la nebbia nella mia mente comincia a diradarsi. Intanto ho dovuto interrompere il discorso con Gianfranco, perchè la mia attenzione è tutta sul campo, anche per recuperare un po’ di amor proprio. Prima della fine del 5 vs 5, scappo via per correre al mio di allenamento, ma non sono assolutamente soddisfatta. Avevo appena cominciato a entrare in partita! Mi do appuntamento con Gianfranco per il prossimo allenamento e me ne vado un po’ entusiasta per quello che ho visto e un po’ meno perchè devo andare.
Il giovedì torno in palestra. I ragazzi si riscaldano come la scorsa volta, mentre io mi siedo vicino a Gloria, ragazza solare, con cui chiacchiero molto e piacevolmente. Lei mi spiega le storie dei ragazzi, anche quelle fuori dal campo. Alcuni vengono dall’estero, altri si sono trasferiti e ora la loro vita è qui. Intanto inizia il 5vs5 e riprende anche la sfida con me stessa. Stavolta sono concentrata sul gioco fin da subito e…capisco tutto! O almeno quasi, dai. Blocco – riblocco, stagger, uscite dai blocchi in allontanamento, pressing, contropiedi. Un ragazzo fa degli assist pazzeschi. E’ il playmaker. Lo capisco perchè sgrida i compagni quando dimenticano gli schemi o fanno delle letture sbagliate. Empatizzo come non mai. Una ragazza, invece, è un cecchino. 100% dal mezzo angolo in uscita dai blocchi. Adesso chiedo alla mia presidentessa se può comprarla. Neanche in terzo tempo abbiamo quelle percentuali. Intanto nell’angolo in fondo a destra della palestra, un altro collaboratore sta insegnando a un ragazzino le basi del gioco. Palleggio ed esercizi di tiro. Sembra niente di che. Ma non credo quel bambino sia d’accordo. Far nascere una passione e coltivarla. Non è proprio niente di che. A chi viene mostrato un mondo pieno di limiti, quel canestro è una porta verso infinite possibilità.
L’allenamento è finito. Mi perdo la partita di sabato, non sono per niente contenta. Gloria mi porta un libro sul basket in carrozzina. Saluto tutti ed esco da casa loro. Una frase mi è rimasta davvero impressa. L’allenamento era iniziato e io parlavo con Gianfranco. Gli chiedo: “Ma i ragazzi fanno anche riabilitazione?” Lui: “Meglio di questo?”.
Al prossimo Back door,
Marina.