Enfim duma escolha faz-se um desafio
enfrenta-se a vida de fio a pavio
navega-se sem mar, sem vela ou navio
bebe-se a coragem até dum copo vazio
e vem-nos à memória uma frase batida
hoje é o primeiro dia do resto da tua vida *Sergio Godinho – O Primeiro dia
Oggi è un giorno molto importante nella storia del blog www.storieparalimpiche.com. È il primo giorno del resto della nostra vita.
È il giorno di tutto quello che viene dopo, il giorno in cui raccogliamo su pagina gli effetti della nostra scelta: la scelta di continuare, ricominciare, e andare avanti, da qui, da RIO, dove non c’è più nessun evento imminente. Dove c’è solo una città che si è riempita e si è svuotata per le Paralimpiadi di Rio 2016 e ora sta cercando di ritrovarsi nella sua nuova veste di città aperta, cosmopolita e complicata. Lo fa intensamente, come sempre.
Domenica un pastore evangelico è stato eletto sindaco di Rio de Janeiro, ieri, lunedì, la pattuglia dell’esercito che presidiava l’entrata della comunidade sotto casa nostra ha smontato il container di coordinamento in poco più di un’ora e se ne è andata, da un giorno a un altro, mentre nella comunità di Chapeu Mangueira la polizia ha ammazzato un ragazzo di quattordici anni.
Oggi è il primo giorno del resto della nostra vita.
Come voi lettori ormai sapete bene questo blog è nato nel 2014, con l’obiettivo di raccogliere storie degli atleti paralimpici sudamericani e italiani sulla strada per Rio 2016. Ora che la strada è stata aperta ci ritroviamo a camminare sempre più in profondità, pronti a seguire un percorso ancora sconosciuto, faticoso e pieno di insidie, che porta fino a Tokyo 2020, passando per le Paralimpiadi Invernali di Pyeongchang 2018. È una lunga strada.
Potremmo fermarci, ma ci è impossibile. Sarebbe molto più complicato che andare avanti, e crediamo fermamente che le storie che raccontiamo meritino di continuare a essere scritte, e che le persone che le abitano contribuiscano a rendere questo mondo qualcosa di più vicino al migliore dei mondi possibili.
Perciò siamo di nuovo qui, a raccontarvi il nostro nuovo inizio, la nostra trasformazione.
Per ricominciare potevamo scegliere di usare una pagina bianca, cambiare veste grafica o modalità di racconto. Potevamo scegliere di cambiare città, nazione, persino mondo.
Sono tutte cose che (forse) succederanno a breve. Ma oggi scegliamo di ricominciare da dove ci eravamo fermati, facendo un passo in avanti ma senza fretta.
Questo post è perciò per noi idealmente il post numero dieci del racconto delle Paralimpiadi, che si congiunge però con l’anello successivo, il primo anello del futuro. Il nostro e quello del movimento paralimpico.
Per raccontarvi questo punto di congiunzione tra ciò che è stato e ciò che sarà abbiamo scelto, di nuovo, la voce di Martina Caironi, che ha condiviso con noi molte delle tappe del nostro viaggio. A lei, che per fortuna sua, vostra, e anche nostra, è una delle voci più rappresentative dello sport paralimpico italiano, ma non è l’unica, affidiamo il compito di aprire una nuova fase della storia di Storie Paralimpiche.
Una nuova fase in cui le voci degli atleti parlano sempre più alto: sono loro che costruiscono la loro vita, che stabiliscono il ritmo del racconto, le cose da dire.
Al ritorno dal suo viaggio sportivo e non solo in terra brasiliana abbiamo chiesto a Martina di raccontarci cos’è stata per lei la Paralimpiade di Rio e cosa le ha lasciato, quali sono state le sue scoperte durante la sua avventura brasiliana e cosa si è voluta riportare indietro. Il risultato, giacché lei è una persona specialissima, è un racconto così completo, intimo e bello da spingerci a pubblicarlo nella sua forma più pura, interrompendolo il meno possibile.
Buona lettura, e buon nuovo inizio a Martina, a noi, a tutti gli atleti che hanno vissuto Rio e a quelli che incontreremo sulla strada da qui a Tokyo!
I risultati
Rio 2016 dal punto di vista delle medaglie è stata come speravo, come me l’aspettavo. Per quando riguarda la previsione della distanza del salto in lungo più o meno ci siamo anche, c’è stata invece una sorpresa nella gara dei 100 metri, dove ho avuto un inconveniente con la protesi, e per questo non ho potuto fare il record mondiale, che pure avevo nelle gambe.
Questo dal punto di vista dei risultati.
Per il resto è stato oltre le aspettative, nel senso che l’ho vissuta in una maniera diversa, diversa dal solito, da quello che avevo in mente io per una Paralimpiade. Avendone già fatta una, quella di Londra, fare il bis a Rio per me significava cercare di stabilizzare una condizione che è nuova ma non è così nuova. Quindi sapevo già come muovermi, come funzionavano le cose, la necessità di magari ogni tanto staccarsi dal gruppo, a volte fare da cuscinetto per le tensioni, a volte invece di estraniarsi, perché anche quello è molto importante. Quando sei nel gruppo e ci devi restare per venti giorni se vuoi sopravvivere devi comunque star bene, devi essere a posto anche a livello di testa e di corpo.
Le sorprese
Poi ci sono state anche delle sorprese, per esempio per quanto riguarda la tensione. Io sentivo di averne tanta sulle spalle prima di partire, me ne sono accorta perché mi è capitato più di una volta di scoppiare a piangere, che non è proprio da me, di solito io piango quando sono proprio all’ultimo stadio, non piango spesso. Ero arrivata proprio al livello di stress più alto, quindi.
La sorpresa è stata proprio quel pianto così lungo dopo i 100 metri. È stato un pianto inarrestabile, perché si portava dietro un fiume di cose successe negli ultimi mesi: tensioni, aspettative, paure.
L’attesa
L’attesa è stato un elemento su cui ho riflettuto molto, cioè che attendere una cosa per troppo tempo ti può fare impazzire, quindi per fortuna che è arrivato. Io mi sento proprio bene ora. Il punto è che non è che bastava che finisse e come andava andava, no, doveva finire bene e visto che è finita bene finalmente ora posso stare più rilassata. C’è voluto un bel po’, perché comunque quando tieni a tutta per un certo periodo di tempo il tuo fisico fa fatica poi a rilassarsi dopo, io ho buttato fuori tutto ma poi dopo anche nel viaggio io ero stanca e ci ho messo un po’ di tempo prima di rilassarmi.
Le regole
Perché hai anche delle abitudini che non puoi sgarrare, e non so ti senti in colpa se fai la nottata, se non so, mangi qualcosa in più, metti su qualche chilo, tante altre cose. Il fatto di non poter trasgredire nulla per tanti mesi mi ha compresso. Ed erano regole che poi ero io stessa a darmi, quindi ancora più difficili da trasgredire, perché se me le dà qualcuno è un conto, se sono io a decidere di tenere questo ritmo, e tenere duro, e rispondere a tutte le interviste per mesi e mesi, perché so che è così che deve andare, è così che devo fare, il corpo rischia di cedere. Infatti poi tornata dal Brasile la sera stessa sono proprio anche stata male fisicamente, ho avuto la gastroenterite.
Per quanto riguarda le regole c’è un sottile filo tra ciò che ti imponi tu e ciò che ti impongono gli altri. Ci sono quasi dei messaggi subliminali che la società ti da: se sei un atleta non puoi sgarrare! È chiaro che tu poi se non sgarri è perché vuoi il tuo di bene, hai anche la coscienza di ciò che rappresenti. Io qua l’ho sentito molto che non lo stavo facendo per me ma per chissà quante altre persone.
Però sì, di base le regole future sono quelle che ci imponiamo noi.
Le aspettative
Il percorso per Rio, in questo senso, rispetto a quello seguito per le paralimpiadi di Londra, è stato totalmente diverso . Cioè io prima di Londra non sognavo assolutamente le Paralimpiadi, ero ancora all’inizio, non sapevo tante cose, sono arrivata lì come una novellina, e il fatto che io abbia vinto a Londra è stato determinato da una serie di fattori: ero predisposta, la mia categoria non aveva raggiunto un certo livello, io ho fatto una preparazione a filo a filo con i tempi, ero nel momento giusto al posto giusto. Invece per quanto riguarda Rio c’è stato un percorso più ragionato, con obiettivi, un’attenzione diversa da parte dei media, che rimarcavano ogni giorno il mio ruolo, quello che stavo facendo, che questo forse non è molto considerato, però il fatto di avere sempre qualcuno che ti rimette sempre sui binari di quello che sei, che ti fa continuamente domande sulla tua vita, domande a cui magari altre persone non risponderebbero.
Le interviste
Cioè fra l’altro rispondere alle domande delle interviste è stata in questi anni quasi una terapia, perché magari mentre io rispondevo trovavo delle parole a delle cose che avevo dentro, obbligata a rispondere, sapendo che dall’altra parte qualcuno avrebbe ascoltato è stato anche utile, il punto è poi quando devi ripetere le stesse cose ottocento volte, che poi ti sembra quasi di fare una caricatura di te stesso.
Bisogna saper gestire l’attenzione mediatica che cresce. Se è graduale uno può riuscire a capire l’importanza di quello che sta facendo e riuscire a dedicare dei momenti a quello e altri a pensare a sé stessi. Il che non è così scontato, perché quando tutti ti cercano ti senti di dover rispondere a queste persone, perché comunque si propongono a te con un approccio positivo. È difficile allontanarsi o estraniarsi da questo flusso. È positivo perché il movimento paralimpico sta crescendo e non siamo ancora arrivati al top, come forse vabbè, neanche quello olimpico, però noi di sicuro siamo ancora in una fase di conquiste da fare, di piccoli o grandi passi da fare come potrebbero essere quello di creare un sistema per cui un disabile che vuole avvicinarsi allo sport appena lo vuole fare sa già il numero da chiamare, le persone da contattare…e ancora in Italia c’è molto da fare su questo, per cui partendo dalla punta dell’iceberg, che siamo noi, pian piano si dovrebbe arrivare anche a questo. Quindi l’attenzione e la notorietà non sono fini all’autocelebrazione del campione, almeno per me è così. È anche noioso dopo un po’ farlo. Però se sai che c’è un fine ultimo, un obiettivo, magari sacrifichi anche quei momenti in cui non hai voglia ma lo fai lo stesso.
Il giro di boa
Rio 2016 mi ha lasciato tantissimo. Da un punto di vista sportivo mi ha fatto capire che davvero può succedere di tutto in una gara, e anche l’importanza che ha per me l’atletica, ed è un’importanza che ha assunto pian piano in questi anni, che non aveva quattro anni fa ma che ha adesso. Se io avessi perso quella medaglia d’oro sarei stata molto molto delusa, cosa che invece a Londra non c’era, perché non c’era questa cosa, questo desiderio così grande. C’era, ma era ancora un germoglio. Mi ha fatto capire anche che sono nella fase matura della mia carriera e quindi mi sento quasi a un giro di boa. Mi sento di arrivare a Tokyo di sicuro e poi di vedere cosa succederà, anche se mi sento ancora in forma e mi sento di avere ancora da dare. Però quattro anni sono tanti, e quindi vedrò quanto ho ancora da dare, e poi vedremo come andrà a Tokyo.
Il presente
Comincio anche a muovermi sotto altri aspetti, adesso ho una manager e sto cercando di incanalare le mie energie verso qualcosa di più grande, qualcosa che non so, aiuto questa fondazione che si chiama Fondazione Fontana, sto cercando di impostare un po’ meglio questo calderone in cui sono finita.
La condivisione
Quello che mi ha lasciato, sicuramente il gruppo della Nazionale, che ho vissuto in maniera molto bella, con anche gli scazzi del caso, però mi sono sentita finalmente anche con amici, non solo con compagni. E questo è dato dal tempo, dal tempo passato insieme, dalle situazioni che abbiamo vissuto insieme, che ti avvicinano, e sento che siamo davvero una famiglia adesso. Stando lì, e rimanendo dopo le paralimpiadi, poi, ho potuto apprezzare alcune cose. Lì ho apprezzato il sorriso dei brasiliani di fronte a situazioni di miseria che qui ci sogniamo, o che non vediamo così spesso. La cosa che ho notato e che mi sono portata qui, e che cerco di rivivere qui ma che non riesco a trovarla ancora così è questo aiuto reciproco che le persone lì si danno. Io lo sento lì che c’è questo senso di comunità quest’appartenenza. La vedi subito, all’inizio rimani addirittura sorpreso, quasi ti dà fastidio, non capisci se ti vogliono “fregare”, e però invece quando vedi che non è così è come se cambiasse tutto perché capisci che insieme si può fare davvero qualcosa di più di quello che si fa da soli. E lì ce n’è una dimostrazione pratica.
Le contraddizioni
Poi per carità ci sono moltissime contraddizioni, c’è la povertà, tantissima, ci sono anche lì brutte persone, ovviamente. Ma mi ha fatto molto riflettere: meno si ha più si ha, perché questa umanità la vedo persa qui da noi negli oggetti, nelle comodità che abbiamo, che non ci spronano a fare le cose con le nostre mani, a cercare delle soluzioni insieme, ma tendono a isolarci nelle nostre torri di avorio.
L’appartenenza
È sempre difficile generalizzare, però io sono tornata dal Brasile, a parte con la saudade, che è scontato, ma con questa sensazione che la io mi sentivo di appartenere a quel popolo, anche se ero straniera. Molti brasiliani mi hanno detto che secondo loro le vere Olimpiadi sono state le Paralimpiadi. Anche in Italia sono state molto più apprezzate quest’anno, basta vedere le persone che mi riconoscono in giro, molta attenzione dalla RAI ecc, io mi sono portata dietro proprio questa sensazione di una società che è unita. Una società che se nello stadio entra Temer fischiano tutti, capito, e se c’è un problema si cerca di risolverlo insieme ecco.
La solidarietà
Anche solo non lo so, un mio amico brasiliano che ha visto questa signora che aspettava il pullman da mezz’ora e il pullman non si fermava. E lui, nonostante fossimo in ritardo, si è fermato e ha aspettato con lei finche non è arrivato il pullman, e poi gli ha chiamato un uber e l’ha pagato lui. Sono gesti che magari dopo un po’ che vivi in Brasile non ti fanno più effetto perché ce ne sono tanti, però non sono per niente scontati, vista anche la freneticità inutile in cui oggi ci ritroviamo qui. Un altro, e forse anche io stessa, avremmo detto: “guardi scusi mi dispiace io devo andare”, perché uno pensa al suo, però se tu ti trovi in necessità, e ti trovi qualcuno che non se ne va finché non ha risolto il tuo problema, ti si apre il cuore, non c’è niente da dire, è proprio un’altra cosa.
Il passaggio dall’altra parte del mondo
Dopo Londra non avevo neanche pensato a fermarmi per fare un viaggio, perché Londra è vicina, e posso andarci quando voglio, e infatti non ci sono più andata a parte per un’altra gara, però quando ho saputo che le Paralimpiadi sarebbero state in Brasile aspettavo anche il dopo, pur non avendo la testa, e sì, io ho questo sogno del Sudamerica da anni, quindi per me è stata un’occasione. Il passaggio dall’altra parte del mondo non lo fai così facilmente: sembra sempre lontano, diverso, difficile, spaventoso. E averlo fatto grazie allo sport è stato meraviglioso. E’ come se lo sport mi avesse accompagnata nella prima parte del viaggio e poi io sono andata. È come se lo sport, come la mamma, mi avesse spinto in avanti.
Il sogno
Ho sempre sognato il Sudamerica nella sua parte ispanofona. È un sogno di cui è difficile spiegare la genesi. È un sogno che ha radici vecchie e difficili da discernere. Sulla parte brasiliana stavo fantasticando solo da un paio d’anni, e dico solo perché due anni non sono tantissimi se sogni qualcosa. Il Sudamerica mi ha sempre affascinato perché avendo contatti con questa cultura così festosa e allegra, e vedendo….non so, le persone conosciute in Italia, conosciute in altri posti, che le vedi che nella maggior parte dei casi hanno un altro spirito. Poi anche nei film, nei libri, di rimandi ce ne sono tantissimi….però non so dirti esattamente…è difficile raccontare la genesi di un sogno.
Il futuro
Partendo dal fatto che il CIP è diventato Ente pubblico staccato dal CONI, e quindi potrà prendere tutta una serie di decisioni proprie che si vedranno, e non le so prevedere ora perché siamo all’inizio del quadriennio, però ci saranno. I cambiamenti probabilmente nella percezione della disabilità e degli atleti paralimpici andranno di pari passo con i cambiamenti sul territorio, quindi con i fondi che verranno dedicati al le varie attività del settore, piuttosto che alla la formazione, spero, finalmente, di tecnici, che siano distribuiti sul territorio che sappiano di cosa si sta parlando. Adesso dovrebbero aprire questo centro a Roma, che si chiama le Tre Fontane, che dovrebbe essere un centro di riferimento per lo sport paralimpico.
Poi c’è il fatto che il sottosegretario Lotti sia venuto alle Paralimpiadi e abbia masticato per un paio di giorni quell’atmosfera e si sia interessato fa pensare a un intervento maggiore dello Stato, si vedrà anche Renzi cosa vorrà fare, ma non mi addentro in politica perché si sa che è un tasto un po’ complicato.
Il cammino
Quello che ho visto è che se in quattro anni si sono fatti questi progressi in questi altri quattro anni secondo me si arriverà a dare sempre più qualità e dignità all’atleta disabile e saranno sempre meno i poverini e i pietismi che purtroppo ancora ci sono ma saranno sempre meno, perché vedo che sia sui social, che sono comunque un canale molto seguito da una fascia ampia di popolazione. Se si dà questo messaggio che l’atleta disabile è un atleta e basta, pian pian piano cambierà la concezione. Come nel caso dei matrimoni civili, sul fatto che i gay sono persone, a prescindere dal fatto che vadano a letto con un uomo o con una donna, e che quindi se parli con un gay non ti devi sentire in imbarazzo, allo stesso modo non ti devi sentire in imbarazzo a parlare con una persona se è seduta, se ha un occhio solo, se ha una gamba sola…è solo questione di capire questo piccolo punto. C’è chi l’ha già fatto e chi ancora no.
*Alla fine di una scelta se ne fa una sfida/ Si affronta la vita dalla testa ai piedi/ Si naviga senza mare, senza vela o barca/ Si beve coraggio da un bicchiere vuoto/ E ci viene alla memoria una frase antica/ Oggi è il primo giorno del resto della vita.
A Martina molto più che grazie!
A Chiara bentornata e a Fabiana benvenuta!
A Marta un grazie fra le righe.
E grazie a Giuseppe di Florio per la foto.