Mercoledì h 18.00 – Botafogo
Non riesco a capire come ho fatto a rischiare di non arrivare in tempo. Avevo esattamente 18 ore, potevo venire ieri dalle 10 alle 19 o oggi, di nuovo dalle 10 alle 19. Tutto il tempo del mondo. Invece eccomi qui, come al solito tutta trafelata, e se non bastasse accaldata e sudata, perché sono venuta a piedi, brillante idea, così, invece di metterci i 20 minuti canonici ci ho impiegato un’ora e ho rischiato di non prenderlo, questo accredito che mi dà in mano una ragazza elegante, gentile e poco convinta, mentre sillabo STORIE PARALIMPICHE, con la esse, sì, STORIE, con la esse, non con la E. E lei cerca il mio nome, diligente, in una lista lunghissima di giornalisti normali, che da domani fino a domenica presenzieranno al campionato internazionale CAIXA LOTERIAS, evento test delle Paralimpiadi di Settembre e inaugurazione dello Stadio Acquatico Olimpico.
A volte vorrei tanto essere una giornalista normale.
O anche solo una giornalista e basta.
Fare il mio, insomma, farla facile. Sapermi organizzare per coprire gli eventi giusti, per frequentare i giri giusti, e risparmiare energie, affanni, giri a vuoto.
Alla fine, con il mio accredito in mano, professionale con il nome del mezzo: STORIE PARALIMPICHE, sì con la S, non con la E, un saluto e un sorriso, istruzioni su cosa posso e non posso fare quando andrò domani all’evento test, respiro e per un attimo mi ci sento, una giornalista normale. Una giornalista e basta.
Ma dura poco. Esco e di nuovo mi ingloba la città che sento quasi mia, e però intanto è sceso il buio, e visto che il buio fa un po’ paura forse è meglio che per tornare a casa prendo la metro, la metro che chiamiamo la geladeira, il frigorifero, perché l’aria condizionata è al massimo e fa un freddo bestiale, ma siccome non sono una giornalista normale io lo so, che nella metro di Rio de Janeiro si muore di freddo e quindi ho sempre con me una felpa. Se dico a qualcuno che fanno quaranta gradi e mi porto una felpa nella borsa mi prende per pazza.
È l’ora di punta e devo lasciar passare quattro metro prima di riuscire a salire su una. Quante volte mi hanno chiesto se la metro di Rio è accessibile? E quante volte ho risposto di sì? Adesso mi pento di averlo fatto, mentre mi ritrovo quasi in braccio a una signora più fortunata, con un braccio aggrappato al sostegno mobile, l’altro teso davanti a me per ricavarmi uno spazio vitale per respirare, la testa infilata sotto l’ascella di un uomo alto e grosso, un adolescente proprio sopra il mio piede, e meno male che c’è l’aria fredda, altrimenti sai quanto sudore scorrerebbe. Sulla carta questa metro è accessibile per i disabili di ogni tipo, ma sarebbe divertente chiederlo al malcapitato in carrozzina che boccheggia poco più in là, se solo potessi arrivarci.
Giovedì h 7.00 – Gloria
Domani è già oggi. Il giorno dell’evento test. È il primo per il quale riesco ad accreditarmi, perché la procedura di accredito non è semplice come sembra. Sulla carta c’è solo da riempire un formulario online, sul sito www.acquecerio.com, ma spesso anche se riempi il formulario la procedura non va a buon fine. E poi magari ti accrediti troppo tardi, o troppo presto, e allora niente, rimani fuori.
Cioè, i giornalisti normali non rimangono fuori facilmente, ma io sì, e ora che le Paralimpiadi si avvicinano non è più così facile com’era prima intervistare gli atleti fuori dagli eventi test. Ci vuole molta dedizione, molto tempo, insomma, bisogna insistere, insistere, insistere, scrivere alle federazioni, convincerli ad autorizzarti, farsi autorizzare. E poi gli atleti si allenano di più e hanno meno pazienza, e ci credo, vorrei vedere se chiedessero a me di raccontare la mia storia per la centocinquantesima volta dopo dodici ore di allenamento. Grazie per l’interessamento, ma vado a godermi il meritato riposo!
Esco di casa (in ritardo!) molto emozionata, accredito in borsa e speranza nel cuore. Riuscirò a portare a casa il mio pezzo? Conoscerò persone interessanti? Sarà divertente? Sarò all’altezza della situazione? Sorrido, certo che lo sarò: sono una giornalista normale. Scendo dalla mia casa in cima al morro più convinta e consapevole, saluto squillante tutte le persone che incontro (non molte in realtà, alle sette di mattina di un giorno festivo, sì perché oggi sarebbe festa, ma i giornalisti normali, c’è da dire, non conoscono festivi quando c’è un evento importante).
Però…passo dopo passo, prende corpo una domanda più pratica, più urgente, più incalzante: come arrivo al Parque Olimpico? Non che io non abbia visto le opzioni, ieri sera, su googlemaps. È che, finchè non si decidono ad aprire questa benedetta linea quattro della metro arrivare al Parque Olimpico di Barra da Tijuca è un’impresa titanica. Un autobus da qui, da Rua da Gloria, ci sarebbe pure…il 309…
Se solo l’autista premesse un po’meno sull’acceleratore forse si accorgerebbe dei miei segni disperati. E invece no, e ne passa uno, e non si ferma. Ne passa un altro e non si ferma. Ne passa un terzo, e ovviamente non si ferma. Alla fine rimango venti minuti buoni a sbracciarmi alla fermata.
A un giornalista normale questo non succederebbe mai.
Un giornalista normale avrebbe già fermato un taxi, o ancora meglio, sarebbe andato all’appuntamento che era stato dato dall’organizzazione all’hotel Hilton di Jacarepagua, alle 8, appuntamento dove ovviamente sarebbe arrivato in taxi.
Perché io scelgo sempre diversamente? Perché io ho scelto, di non andare a quell’appuntamento. Non è che nessuno me l’abbia impedito.
Però…
Il giornalista normale non sarebbe stato mai aiutato da un venditore ambulante di banane, nello sbracciarsi per fermare uno straccio di autobus (possibilmente quello giusto, perché l’autobus di cui non hai bisogno, a Rio de Janeiro, è sempre quello che ti vede e si ferma).
Il giornalista normale non avrebbe ingannato il tempo scambiando battute con il vecchio signore dall’altro lato della strada, che ammonisce: “non ti arrotolare i capelli con la mano, che sennò te li rovini…sono così belli”. (Sì, nel frattempo, dopo venti minuti di attesa e sbracciamenti ho iniziato a innervosirmi e mi tormento i capelli furiosamente).
Il giornalista normale non avrebbe, una volta salito sull’autobus e tirato un sospiro di sollievo, iniziato a chiacchierare con tre giovani della Rocinha, la favela più grande di Rio de Janeiro, praticamente una città a sé, scoprendo tutti gli scheletri nell’armadio del loro capo, che gestisce un chiosco sulla spiaggia a Barra da Tijuca.
Il giornalista normale non avrebbe avuto il tempo di guardare fuori dal finestrino (tanto l’autobus ci mette più di un’ora, fa tutto il giro delle spiagge della Barra) e notare che il mare oggi è molto strano, vomita onde altissime e sputa rivoli di spuma.
Di tutti questi fatti solo l’ultimo avrà in realtà rilevanza da un punto di vista giornalistico (e molta). Ma io li ho vissuti tutti, e dopo essere scesa al Terminal Alvorada, aver chiesto indicazioni a tre o quattro persone, aver preso il BRT Transcarioca scendo alla fermata RIO 2. Non mi sembra vero di essere arrivata a destinazione, e chiedo ulteriormente conferma a un lavoratore del BRT:
“Scusi, per arrivare al Parque Olimpico?”
“Ma tu dici la fermata della metro o stai andando proprio alle Olimpiadi?”
“Proprio alle Olimpiadi” – rispondo. Così per una volta mi ritrovo in largo anticipo.
Sono arrivata sul serio. La tanto chiacchierata Città Olimpica si apre davanti a me.
E dopo due chilometri di camminata sotto il sole, quattro chiacchiere con gli operai (che lavorano ancora senza sosta perché le strutture siano finite in tempo per il 5 Agosto, quando inizieranno i Giochi) finalmente faccio il mio ingresso trionfale nel piazzale di ingresso dello Stadio Acquatico.
E mi guardo intorno alla ricerca di tutti i giornalisti normali che saranno qui tra qualche mese, quando tutto sarà pronto, quando la metro, finalmente, aprirà, quando tutte le luci della città saranno puntate qui.
Rio Città Olimpica. Ma per ora ci siamo io e una piazza vuota. Cioè, realizzo, canticchiando sulle note della canzone dell’Equipe 84…
ꭊꭉꭊ Tutta mia la cittàààà, un deserto che conosco ꭊꭉꭊ
Essere da soli in mezzo a una piazza, dentro la Città Olimpica, è un’emozione pazzesca, di quelle che si provano poche volte nella vita, è un momento che si stampa nella memoria, e che diventerà una storia da raccontare ai nipotini, ne sono sicura.
Per ora, visto che non ne ho, lo racconto a voi che pazientemente mi avete letto fino a qui. Essere qui oggi, per me, vuol dire tirare le fila di un percorso (tortuoso, come avete visto) ma punteggiato di imprevisti, di avventure, di scoperte, di incontri casuali, di storie apparentemente insignificanti, ma che meritano di essere raccontate. Storie che fanno parte di un modo di vivere, di una cultura, di un mondo, che il giornalista normale che si concentrerà sull’evento Olimpico (o Paralimpico, come nel mio caso) avrà modo di conoscere solo in parte. E che io ho l’immensa fortuna di vivere ogni giorno.
Mi immergo, leggera e a testa alta, dentro lo Stadio Acquatico.
“Giornalista?” – mi chiedono.
Annuisco. Ma non sarò mai una giornalista normale.
Al torneo Caixa Internacional hanno partecipato 212 atleti, di 19 nazionalità diverse, e il Brasile ha totalizzato in tre giorni 66 medaglie.
Abbiamo deciso di non raccontarvi nel dettaglio quello che è avvenuto dentro lo Stadio Acquatico, ma non preoccupatevi! Il mistero durerà solo fino al 7 settembre, quando entreremo dentro DAVVERO, tutti insieme.
CORRI VERSO RIO CON STORIE PARALIMPICHE
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Ah…una triste delucidazione. Perché ho scritto che il fatto che il mare fosse molto mosso ha rilevanza giornalistica?
Mentre io ero dentro lo Stadio Acquatico, un’onda particolarmente forte e alta ha abbattuto un tratto della pista ciclabile Tim Maia, sull’Avenida Neymeier, nella Zona Sud di Rio. Due persone sono morte, e ci sono stati vari feriti e dispersi. Inaugurata pochi mesi fa, a gennaio, la pista crollata era costata 44 milioni di reais (circa 10 milioni di euro). Era considerata il fiore all’occhiello dei lavori pubblici per Rio Città Olimpica.