Vorrei raccontare di com’è bello questo ponte di notte, camminando in mezzo al niente, in mezzo al silenzio, alle luci, alle stelle, alle macchine che passano velocissime, ai cani randagi che escono dal nulla e all’improvviso. E dei primi passi dati con paura. E del momento in cui ci siamo fermati in quel punto esatto in mezzo al cammino e abbiamo pensato: “niente è pericoloso se non ne abbiamo paura”. Del momento in cui ci siamo dimenticati della paura e siamo arrivati fino a dove volevamo arrivare.
Valdemir, detto il Polacco – “nessuno mi chiama Valdemir, però forse è il caso che sul blog scrivi Valdemir…” è una persona a cui piace costruire. Ha adattato una moto, con cui si muove dappertutto, costruisce antenne televisive artigianali e ha costruito la sua stessa handbike, con cui partecipa alle corse che avvengono in città. Ultimamente, racconta, diversi dei ragazzi della squadra si stanno cimentando con l’handbike: “certo è molto cara, quindi non è semplicissimo, ma ci stiamo attrezzando”. La squadra è in realtà una squadra di basket in carrozzina, si chiama harpia da fronteira e appartiene all’UDF (Unione dei Disabili Fisici), l’unica associazione che si occupa di disabili fisici a Foz do Iguaçu.
Racconterò invece, molto più semplicemente, di un passaggio di frontiera, una frontiera diversa dalle altre.
Valdemir è in sedia a rotelle ormai da molti anni: è stato ferito da una pallottola vagante durante una rapina: “un tipo ha assaltato qua vicino e scappando ha sparato. Io ero in cortile e sono stato ferito. Una persona che era con me mi ha sollevato, magari di istinto, e forse proprio per questo sono rimasto paralizzato”. I suoi precedenti con lo sport sono quelli di quasi tutti gli iguaçuensi: “Quando camminavo giocavo a calcio, qui tutti giocano a calcio…quando ho smesso di camminare non pensavo che avrei fatto sport, figurati. L’unica persona in carrozzina che conoscevo era uno che viveva vicino casa mia, che beveva, non si lavava, si aggirava per il quartiere da mattina a sera chiedendo soldi, in condizioni pietose. Ovviamente ho pensato che sarei finito anch’io così, non pensavo di avere altre possibilità”. Poi un giorno un amico mi ha portato al primo allenamento di basket in carrozzina, e non ho più smesso.
Come accade con tutte le frontiere, per passare dall’Argentina al Brasile basta un passo. Un passo dato sul ponte costruito nel 1985 sul Rio Iguaçu, che collega Puerto Iguazu, in Argentina, a Foz do Iguaçu, in Brasile. A vista, dall’altro lato del fiume, c’è il Paraguay, in questa frontiera diversa dalle altre che prende il nome di Triplice Frontiera. Una frontiera che separa tre popoli, tre culture, tre città vicini e diversi. Il versante paraguaiano è Ciudad del Este, un enorme porto franco, il terzo al mondo dopo Miami e Hong Kong, un centro commerciale a cielo aperto brulicante di persone, dove si può comprare ogni tipo di mercanzia. Mercanzia che ogni giorno passa da un lato all’altro della frontiera in grande quantità, legalmente e non. Il versante argentino è Puerto Iguazu, una cittadina piccola, colorata, fatta a misura dei turisti, che possono passeggiare a piedi per il centro, facendo tappa nei numerosissimi negozietti di artigianato, andare a mangiare picada (un tagliere di salumi e formaggi) e empanadas (panzerotti ripieni di carne, formaggio e verdure) alla feirinha e concludere la serata in uno dei tanti locali dell’Avenida Brasil, la strada principale. Il versante brasiliano è Foz do Iguaçu, una città di 300.000 abitanti che si è sviluppata vertiginosamente a fine anni ’70, quando è stata costruita la diga di Itaipu, che è seconda per produzione di energia idroelettrica solo alla diga delle Tre Gole, in Cina.
“E’ un circolo vizioso. Mancano risorse e quindi mancano attività, ma quando non ci sono abbastanza attività le risorse non arrivano” – è molto lucido nel fare il punto della situazione Dirceu, che lavora per Itaipu Binacional, la società che gestisce la diga di Itaipu, nell’area delle risorse umane. Lui, che ha una malformazione agli arti inferiori e può camminare con le stampelle, prima di incontrare il basket in carrozzina ha sempre giocato a calcio con i normodotati. “Quando sono arrivato a Foz cercavo uno sport e ho incontrato il basket, e non ho più lasciato. Adesso come adesso, in verità, quello che vorrei è che diventasse un semplice allenamento del mercoledì. Per me, lavoro e famiglia, sono sposato e ho due figli, sono prioritari”. Il bello di una squadra, la sua forza, è racchiudere tante anime, storie e motivazioni diverse. Dice Valdemir: “tanti ragazzi all’inizio non vogliono venire, poi vengono e non vanno più via, ognuno con il suo grado di motivazione”. Lui, che della squadra fa parte da molti anni, ne custodisce, in qualche modo, la storia: “col tempo molte cose sono cambiate, dei progressi sono stati fatti, alcuni dei ragazzi si concentrano sul basket, alcuni no”. Lui, che della squadra fa parte da molti anni, sa che dentro ci sono persone di tanti tipi. È il bello di una squadra, il bello dello sport, il bello del mondo.
“E’ stato proprio Valdemir a convincermi a partecipare. Mi ha incontrato tre anni fa al supermercato in fondo alla via, e mi ha proposto di venire a giocare a basket. Per più di un anno non ho voluto, mi sembrava una cosa strana, mi faceva un po’ paura, e poi ero pigro, non mi andava, ecco. Poi un giorno, ero in casa senza nulla da fare e mi sono detto: ok, andiamo”. Odair è arrivato a Foz 25 anni fa in cerca di lavoro, e fa la laranja, l’arancia, come vengono chiamate le persone che trasportano mercanzie dal Paraguay al Brasile. Parla con uno strano accento, tanto che mi viene spontaneo pensare che sia paraguaiano o argentino.
“No no, sono brasiliano!”
“E allora perché parli così?”
“Non serve a niente parlare con l’accento spagnolo per farti capire meglio?”.
“Eh no…non serve a niente” – rido.
Riprende a parlare normalmente, e racconta del suo incidente, 15 anni fa, in moto: “ai tempi bevevo, e mi drogavo. Cioè, bevevo e mi drogavo anche dopo, in realtà, per altri cinque anni dopo l’incidente, adesso grazie a dio non più, e sono diventato religioso…”. Ricorda perfettamente il giorno di dicembre di dieci anni fa in cui ha deciso di cambiare abitudini, Odair, una scelta meditata e coraggiosa: “un giorno sono tornato a casa fuori di me, avevo esagerato, avevo partecipato a una rissa per strada, ero proprio a pezzi. Sono rientrato e ho guardato mia moglie e mia figlia, erano in lacrime. Ho giurato, a loro e a me stesso che da quel giorno in poi non avrebbero più pianto per questo motivo. E ho rispettato il giuramento” – aggiunge fiero.
Come accade con tutte le frontiere qui ci sono persone per tutti I gusti, ma anche un po’ di più. Ci sono turisti, tanti, attirati dall’enorme e impressionante mole d’acqua delle Cascate di Iguaçu, elette nel 2012 una delle sette meraviglie della natura, e lo sono davvero, con il loro azzurro, bianco, marrone, verde, arcobaleno. Ci sono contrabbandieri, avventurieri, viaggiatori di ogni tipo, gente che è qui per caso, molti studenti – nel 2010 a Foz do Iguaçu ha aperto i battenti l’UNILA, Università federale di integrazione Latinoamericana, che ha iscritti provenienti da tutta l’America latina – e, ovviamente, chi qui è nato e cresciuto.
Carlos ha 51 anni, lavorava nel campo delle costruzioni ed è caduto dal tetto. Si è avvicinato al basket in cerca di una maggiore autonomia, e a suo dire l’ha raggiunta, eccome. “per me è proprio un fatto fisico. Fare sport ti aiuta a diventare più forti, ad acquistare forza nelle braccia, nel tronco, a ritrovare un po’ di quella forza perduta”. La cosa che più l’ha fatto soffrire, quando si è ritrovato, già adulto, in carrozzina, è stato dipendere dalla moglie e dalle figlie: “oggi no, oggi non ho più bisogno del loro aiuto. Chiaro che mi appoggiano, ma non sono costrette a starmi sempre dietro. Anche perché lavorano, e io voglio lasciarle lavorare. Per di più ora sono io ad aiutarle: gli preparo il pranzo, glielo porto a lavoro, fino a poco tempo fa guidavo anche la mia macchina, solo che poi purtroppo l’anno scorso me l’hanno rubata”.
La città del cuore
E poi ci sono io sul ponte Tancredo Neves, dando quell’unico, piccolo, passo che farà passare Storie Paralimpiche dall’Argentina al Brasile. Tutti voi lettori, ormai, sapete che io e il blog stiamo andando verso Rio, alla ricerca di nuovi atleti, di nuove storie e nuove idee. Quello che forse non sapete è che per me questa è davvero una frontiera diversa dalle altre. Sì, perché nel momento in cui mettono il timbro di ingresso brasiliano sul passaporto, e supero l’ultima barriera, sono a casa. Trecento metri a sinistra e si arriva dove tutto è iniziato, nel 2012, quando ho partecipato a un progetto di Servizio Civile del CESC Project al CAIA, un centro per adolescenti di una comunidade carente della città, Porto Meira.
Qui è cresciuto Valdemir, e il suo vecchio amico Juarez, che l’ha portato al primo allenamento di basket, è il coordinatore del CAIA.
Il mondo è piccolo e fatto di relazioni.
Se l’anno che ho vissuto qua non fosse stato fatto di relazioni meravigliose, se non fosse stato vissuto intensamente, se non avessi fatto ogni giorno nuove scoperte, se non avessi ricevuto e accumulato amore, probabilmente non sarei mai più tornata in Brasile, non avrei mai concepito il progetto Storie Paralimpiche così com’è e non staremmo lottando per andare alle Paralimpiadi. I brasiliani chiamano la città d’adozione cidade de coraçao, città del cuore. Ecco, per me Foz do Iguaçu è questo, e nonostante il trascorrere del tempo non passo mai questa frontiera indenne e libera dall’emozione.
Emozione che mi porto dentro, forte e bella, oggi che riesco a realizzare la prima intervista qui, in questa frontiera diversa dalle altre.
Grazie a Harpia da Fronteira, Valdemir, Dirceu, Carlos, Odair e Roberto.
Grazie a Juarez, una volta ancora, e non solo per questo. Grazie a Giorgia e Ruggero, per le foto, la compagnia e per essere famiglia, sempre. Grazie a tutta la famiglia Caia, grandi e piccoli, vi amo molto.