All’inizio si chiamava Murderball.
A inventarlo, nel 1977, è stato un gruppo di atleti tetraplegici canadesi che giocavano a basket. Il basket in carrozzina non è uno sport pensato per persone che hanno problemi agli arti superiori, fondamentali non solo per spingere ma anche per lanciare, passare, palleggiare. Jerry Terwin, Duncan Campbell, Randy Dueck, Paul LeJeune e Chris Sargent perciò, sentendosi esclusi dalle competizioni importanti, hanno pensato uno sport che fosse dedicato specificamente a persone tetraplegiche o con patologie simili.
Col tempo, forse giudicando che palla assassina fosse un nome inadatto a uno sport paralimpico, il Murderball è diventato Wheelchair Rugby in onore di quell’irruenza che secondo Rufo Iannelli, giocatore di rugby in carrozzina romano e fondatore dei Romanes, la prima squadra della capitale, “è poi l’unico reale punto di condivisione con il rugby per normodotati, l’emozione di poter essere irruenti, cosa che quando sei in sedia a rotelle o ti trovi ad avere una disabilità ti è sostanzialmente preclusa, perché tendi a essere messo, o a metterti tu stesso, in una bolla”.
La mischia più grande del mondo
Nel rugby in carrozzina la mischia non c’è. Ma Alexandre Keiji Taniguchi, atleta dell’ADEACAMP di Campinas e capitano della Nazionale brasiliana di Wheelchair Rugby ha avuto l’emozione di iniziarne una. Secondo Alexandre un’altra somiglianza importante tra il rugby a 15 e il rugby in carrozzina è “lo spirito di grande rispetto con cui si trattano gli avversari dentro e fuori dal campo, sebbene il clima di gioco sia molto intenso e competitivo. Io credo che sia molto importante mantenere il legame tra il rugby convenzionale e il Wheelchair rugby – aggiunge Alexandre – perchè ciascuna disciplina può aiutare a divulgare l’altra e farla, così, crescere”.
Come è successo sabato 24 ottobre allo stadio di Ibirapuera, prima della semifinale del campionato di rugby a 15 più importante del paese. L’occasione è stato il tentativo, organizzato dalla Federazione Brasiliana di rugby, di migliorare il record della mischia più grande del mondo, tentando di coinvolgere più dei 1.008 inglesi che dal 13 settembre 2014 detengono il record. “Su iniziativa del Comitato Paralimpico brasiliano sono stato invitato a dare il calcio d’inizio. Il record non è stato migliorato, ma è stato un evento molto importante, che ha visto la partecipazione di migliaia di persone. Porterò con me il senso di profonda unione che questa giornata di rugby mi ha lasciato dentro”.
Regole diverse, destini comuni
Anche in Italia lo sviluppo del Wheelchair Rugby è intimamente legato al rugby. Spiega Rufo: “A un certo punto, a partire da 7-8 anni fa, il rugby per normodotati ha iniziato ad avere più popolarità, a essere più seguito, soprattutto la Nazionale, ed è cresciuto molto. Penso siano state proprio le persone che gravitavano in questo mondo a volersi aprire al Wheelchair Rugby. Molti di loro si sono votati un po’ alla causa del rugby in carrozzina. La maggior parte di queste persone ancora seguono il movimento, e si sono trovate spesso delle combinazioni per cui si faceva un evento di rugby per normodotati e lo si associava a un evento di rugby in carrozzina”. Come il match Italia – Irlanda che si è tenuto a Roma il 7 febbraio 2015, in contemporanea con la stessa partita del sei nazioni.
Nel nostro paese, attualmente, esistono squadre di Wheelchair Rugby in cinque città: Padova, Vicenza, Trieste, Roma e Milano, l’ultima arrivata in ordine di tempo. Al centro del movimento le squadre del Triveneto, un altro nodo del filo che unisce rugby in carrozzina e rugby a 15: il rugby nasce lì, e lì vi sono le squadre storicamente più forti. Esiste anche una selezione, quasi una “nazionale” del Triveneto, i Dogi, nata negli anni ’80, che proprio in questo periodo è stata ricostituita, a cui si affiancano ora i Dogi in carrozzina. “in quella zona c’era molta gente disponibile ad aiutare” – aggiunge Rufo. “Anche perché con il rugby siamo tutti più o meno tetraplegici, e abbiamo bisogno di assistenza già solo per metterci in carrozzina. A nord c’è molto più la cultura del sociale di quanta non ce ne sia nel centro-sud, e quindi c’è molta gente che fa volontariato. Noi a Roma pensiamo di non essere da meno. Così abbiamo voluto abbassare un po’ il baricentro a livello nazionale. Roma ha un bacino di potenziali giocatori, persone che potrebbero trarre beneficio dal fare quel tipo di sport, che hanno quel tipo di disabilità previste”.
Da Roma a Stoke Mandeville e ritorno
L’incidente di Rufo è avvenuto 4 anni fa. Un tuffo in mare, rottura della quinta vertebra cervicale. “Sono stato ricoverato per un primo periodo in Italia, al Santa Lucia, dove mi sono trovato malissimo soprattutto da un punto di vista ospedaliero, e da lì sono stato spostato a Stoke Mandeville, vicino Londra, che è dove sono nate le Paralimpiadi”. Rufo ha la madre inglese ed è cittadino britannico, e una parte della sua famiglia vive in Gran Bretagna, e poteva perciò andarlo a trovare facilmente. “A Stoke Mandeville mi hanno recuperato molto bene da un punto di vista clinico. Dal punto di vista della riabilitazione, poi, loro cercano da subito di coinvolgere le persone nello sport a fini terapeutici-riabilitativi, non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico”.
Così è scattata la scintilla: “mi hanno proposto subito di fare sport all’interno dell’ospedale, cosa che io non avevo proprio preso in considerazione, cioè, io avevo pensato che non avrei più avuto granchè a che fare con lo sport nella mia vita. Quando sono tornato in Italia, sono tornato a casa, ho cercato di renderla un po’ più accessibile e poi, dopo essere stato 20 mesi in ospedale tra Italia e Gran Bretagna mi sono detto che io di ospedali, centri di riabilitazione non ne volevo più sapere. Però avevo comunque bisogno di muovermi, e anche di incontrare altre persone in carrozzina, dallo scambio con le persone si impara tanto. È che spesso ti ritrovi con altre persone in posti spersonalizzanti, come gli ospedali, in cui sei accomunato solo dalle disgrazie, e quindi mi piaceva l’idea di creare una realtà diversa, che non esisteva ancora a Roma, che fosse proprio una squadra di Wheelchair rugby. È stata una sfida: vorrei riuscire a praticare questo sport, perché non è così scontato che tu riesca, è molto faticoso. Poi per il mio livello di lesione è molto impegnativo, ho bisogno di aiuto per mettere i guanti, posizionarmi sulla sedia e tutto, però una volta che sono sopra sta a me trovare il modo di spingere e di essere efficace nel gioco”.
Animato dalla sfida, già quando si trova in ospedale Rufo prende contatti col movimento in Italia, e scopre che già dal 2011 esiste una nazionale: “sono entrato in contatto con loro, ho parlato con il team manager Claudio da Ponte e gli ho detto che ero interessato a partecipare, e quando sono tornato a Roma gli ho chiesto se c’era qualcuno qui con cui potessi mettere in piedi il movimento, e ho trovato un ragazzo che aveva pubblicato una tesi sul Wheelchair Rugby. Poi abbiamo reclutato gli altri, principalmente tramite il passaparola, abbiamo trovato un’associazione, Ares, che ci ha ospitato nella palestra che gestiva, a Saxa Rubra”. Oggi Rufo non si allena più con quest’associazione, e ha il progetto di fondarne molto presto una nuova. “Da quando ho scoperto che esiste questa disciplina e che esiste questa possibilità per me è diventato fondamentale, è diventato una parte integrante di questa mia seconda vita. Mi piace che riesco a coinvolgere anche la mia famiglia in questo, i miei bambini. Spero di diventare un giocatore sempre migliore, anche se adesso ho trentotto anni, ma spero comunque di migliorare e di giocare più a lungo possibile”.
Un altro tuffo
All’epoca del suo tuffo, in piscina, durante un churrasco, una grigliata con gli amici, Alexandre aveva 21 anni e studiava ingegneria all’Unicamp di Campinas, città universitária dello Stato di San Paolo. “Ho iniziato a giocare a rugby in carrozzina nel 2008, e già ala fine di quell’anno ho ottenuto la prima convocazione in nazionale. Da allora ho avuto la fortuna di entrare in contatto e lavorare con molte persone che mi hanno aiutato a crescere, come atleta e come uomo. Il rugby mi ha dato l’opportunità di conoscere luoghi e persone diverse in tutto il mondo, un’opportunità che forse non avrei avuto se non ci fosse stato l’incidente”.
Secondo Alexandre “ il beneficio che una persona disabile può trarre dallo sport è lo stesso di una persona non disabile, ma enormemente amplificato. Inoltre, oltre al benessere psicofísico, va considerata l’importanza della dimensione della socialità e della sfera delle relazioni, che quando si ha un incidente come quello che ho avuto io possono cambiare completamente rispetto al passato, e attraverso lo sport si possono ricostruire”. Riflessione, questa, che condivide anche Rufo: “prima dell’incidente non sono mai stato un grande fan degli sport di squadra. Adesso che ho scoperto questo sport sono riuscito forse a cogliere di più il senso e l’importanza del senso di squadra laddove non riesco più a arrivare da solo, perché riesco a fare molto meno di quello che facevo, e ho spesso bisogno di aiuto e di assistenza. Inoltre trovo bello il fatto che in una squadra ciascuno ha il suo ruolo, e io cerco di fare il meglio del mio ruolo, che è funzionale a qualcun altro, che ha magari un grado di disabilità diverso e che può fare più cose di me…anch’io nel mio piccolo ho la mia dignità di giocatore da mezzo punto, che è il mio punteggio di classificazione, che è il più basso, che corrisponde al grado più alto di disabilità”.
Restituire allo sport
L’obiettivo di Alexandre, che nelle ultime gare ha vestito la fascia di capitano della nazionale, ma precisa sorridendo che “in realtà abbiamo due capitani, e io sono uno dei due. In futuro chissà”, è quello di poter rappresentare al meglio il suo paese nelle competizioni future. Come le Paralimpiadi di Rio 2016, per le quali la squadra è già classificata in quanto nazione ospitante. Un altro obiettivo è quello di “poter aiutare in qualche modo questo sport che mi ha aiutato molto nella vita”.
Rufo ne fa anche un discorso di categoria “quella dei tetraplegici è una categoria di persone che è stata un po’ più sfortunata degli altri e quindi ha bisogno di alcune attenzioni in più, in questo senso. E poi non ci possiamo dimenticare che ci sono anche tante persone tetraplegiche che hanno ricevuto un trauma alla cervicale o alla colonna che non riescono a muovere assolutamente le braccia. Alcune persone hanno bisogno di essere attaccate a un respiratore, magari a seguito di un trauma, di una caduta. Anche per quelle persone questo sport, che apre a disabilità più gravi, può essere un modo di far passare un messaggio di apertura. Dal mio punto di vista personale vorrei che fosse anche un modo di diffondere la consapevolezza che bisogna investire nella ricerca per la cura delle lesioni spinali, perché è possibile, e in tanti ci si stanno avvicinando. Questo varrrebbe poi per tutti: para, tetraplegici, e anche le persone che sono immobili, che non possono assolutamente muovere le braccia e non possono respirare autonomamente, che hanno bisogno di un respiratore. Queste persone hanno un’aspettativa di vita di circa dieci anni, quindi bisogna anche affrettarsi a trovare una cura. Non è un’opinione largamente condivisa, neanche tra i tetraplegici”.
Secondo Rufo tutti hanno l’impegno di dover pensare anche a persone che hanno lesioni simili ma peggiori, più dolorose, più impegnative. “Questo è vero anche se alcune persone riescono a conquistare un grado di autonomia e indipendenza, nonostante i problemi che riguardano ad esempio la gestione delle incontinenze, dei dolori ecc. Queste persone sono quelle che hanno meno problemi e dicono: la cura…è uno specchietto per le allodole, è una cosa alla quale non arriveremo mai, che io non vedrò, e quindi…io riesco a fare quello che mi serve e mi sta bene. Un discorso di questo tipo secondo me è umanamente accettabile, però penso che tutti abbiano il dovere di pensare anche agli altri. Perché in effetti l’aspettativa di vita viene pressochè dimezzata quando hai una lesione midollare e pensare a persone che hanno bisogno di un respiratore e non possono durare più di tanto dovrebbe far riflettere. Molti forse hanno anche paura, timore di sperare troppo in qualcosa che poi non accadrà, però almeno io mi sento di non aver molto da perdere. Cioè, al peggio rimango così, non è che peggiora la mia situazione…Ci sono tante ricerche che si stanno implementando e che stanno cominciando ad ottenere i primi risultati. Il mio personale impegno nello sport riguarda anche questo, parlare di questo”.
Da Roma, a Stoke Mandeville, a Campinas, a Rio 2016 e ritorno.
Grazie a: Anselmo Athayde Costa e Silva, a Rufo Iannelli che mi ha aperto le porte di casa sua, a Alexandre Keiji Taniguchi, velocissimo nel gioco e nelle risposte, a Mauana Simas per avermi fatto conoscere il rugby.